Il piano: in pensione a 63 anni e 37 di contributi

Con questi parametri fuori dal lavoro 450mila lavoratori in più rispetto al sistema di oggi

Il piano: in pensione a 63 anni e 37 di contributi

Roma. Matteo Salvini lo promette da mesi: «quota 100» si deve fare. Ieri ha ribadito il concetto al Messaggero Veneto. «Sarà l'intervento più importante, da almeno 7-8 miliardi. Non vedrete sconticini alla Pd, ma qualcosa che consentirà a 300-400 mila persone di andare in pensione, liberando altrettanti posti di lavoro, ha dichiarato. Anzi, ha fatto di più. Fonti governative hanno fatto sapere che il governo è al lavoro su un'ipotesi di riforma delle pensioni double face. Infatti «quota 100» avrà due soglie minime: non solo per l'età pensionabile (confermati i 62 anni) ma anche per l'anzianità contributiva che dovrebbe attestarsi tra i 36 e i 37 anni (cioè 63-64 anni).

Secondo le simulazioni diffuse, con 36 anni di contributi uscirebbero dal lavoro nel 2019 450mila lavoratori in più rispetto alle regole attuali, mentre con 37 anni l'uscita riguarderebbe 410mila persone in più rispetto all'attuale sistema. La percentuale di pensionandi dovrebbe essere del 60% per il settore privato e del 40% in quello pubblico. Il Tesoro vorrebbe fissare l'asticella dei contributi per andare in pensione a 37 anni ma la Lega è in pressing per portarla a 36. Anche se l'esecutivo ha tenuto a precisare che resta allo studio l'ipotesi di alleggerire anche il requisito contributivo di accesso alla pensione di vecchiaia che dall'anno prossimo salirà a 43 anni e 3 mesi (42 anni e 3 mesi per le donne), è chiaro che il deflusso di 450mila pensionati in più rende meno sostenibile la strada dei 41 anni e mezzo giacché una «quota 100» così congegnata supera gli 8 miliardi di costo. Una stima della società Tabula ha infatti evidenziato che, aggiungendo anche «quota 41,5» come anni di contributi minimi per uscire dal lavoro a prescindere dall'età i beneficiari potrebbero essere 660 mila e i costi di conseguenza esploderebbero.

Salvini cerca sempre di apparire rassicurante. «Stiamo tagliando tutte le spese inutili, gli sprechi. E poi lo ribadisco: se si vuole realizzare un'operazione che rilancia lavoro e crescita non possiamo impiccarci alla percentuale», ha aggiunto nell'intervista. Ecco perché l'ipotesi della pace contributiva ventilata nei giorni scorsi potrebbe acquisire sempre più fondamento. Si tratterebbe di consentire a coloro che non avessero la copertura previdenziale necessaria dopo il 1996 (anno di entrata in vigore della riforma Dini) di versare volontariamente, con uno sconto notevole e a rate, la parte mancante al raggiungimento della soglia minima di contributi necessari ad andare in pensione. Questa misura potrebbe limitare il costo a carico dello Stato e risulterebbe conveniente soprattutto per i lavoratori autonomi. Il vero risparmio, però, si otterrebbe con l'introduzione dei fondi aziendali per il pensionamento dei dipendenti, sul modello del settore bancario, ma è una soluzione che non può essere attuata in maniera estemporanea.

L'eventuale introduzione di un ricalcolo contributivo per chi sceglie il pensionamento anticipato (si stima un abbattimento del 10-15% dell'assegno), invece, non è mai piaciuta molto al Carroccio anche se abbasserebbe ulteriormente la spesa.

GDeF

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