Azar Nafisi sa bene che cosa significhi vivere con l'angoscia perché una persona cara è finita nelle mani degli ayatollah: lo ha provato quando era ancora in Iran, quando una delle sue studentesse è stata arrestata, come ha raccontato nel suo libro più famoso, Leggere Lolita a Teheran, da poco diventato anche un film, diretto da Eran Riklis; lo prova da anni, dal suo esilio a Washington, ed è uno dei motivi per cui continua a combattere contro le ingiustizie del regime, attraverso le sue opere bellissime, come l'ultimo saggio Leggere pericolosamente. Il potere sovversivo della letteratura in tempi difficili (Adelphi). E perciò è turbata, e addolorata, di sapere che una giovane giornalista come Cecilia Sala sia in prigione a Teheran.
Azar Nafisi, la sorprende che sia stata arrestata una giornalista?
«No, non sono sorpresa. Come ogni sistema autocratico, la Repubblica islamica ovviamente ha paura dei giornalisti; perché immagina che facciano bene il loro lavoro e che, quindi, rivelino la verità: qualcosa di cui la Repubblica islamica è nemica».
Non la stupisce nemmeno il fatto che sia straniera?
«Questo regime era uso catturare gli stranieri come ostaggi... Però non hanno ancora specificato perché la abbiano incarcerata».
Crede che sia un fattore positivo o negativo?
«Sono così imprevedibili... Potrebbero non dire nulla fino a che non capiranno come reagirà l'opinione pubblica. È tutto poco chiaro. Non capisco perché sia accaduto, specialmente in questo momento, in cui il regime non vive una buona situazione dal punto di vista interno. Forse cercano un diversivo nuovo, trattenendo una persona di nazionalità straniera. Ma qualsiasi cosa questo governo faccia non è una sorpresa, perché l'ha già fatta in passato».
È un'ennesima forma di censura da parte del regime?
«La censura esiste nei confronti dei cittadini iraniani ed esiste, sicuramente, nei confronti dei giornalisti: molti reporter iraniani sono finiti in prigione, sono stati torturati e uccisi. Il vero giornalismo è pericoloso, perché rivela le bugie che il sistema cerca di rifilare al mondo. E una giornalista italiana che, una volta tornata nel suo Paese, racconti la verità, non farebbe un buon servizio al regime».
Così però non è ancora maggiore il danno d'immagine per gli ayatollah?
«Bisogna aspettare le mosse successive. Credo che il governo non sia ancora sicuro di che cosa fare con lei e che per questo motivo non siano ancora state esplicitate le accuse. Di solito, i giornalisti sono accusati di essere delle spie ma, in questo caso, ancora non è stato dichiarato nulla; ed è un buon segno che l'ambasciatrice italiana abbia potuto vederla. Stanno aspettando di avviare delle negoziazioni prima di formulare eventuali accuse? Può essere».
I media come dovrebbero reagire secondo lei?
«La stampa italiana non dovrebbe dimenticare. A volte, questi casi si concludono in fretta e le persone non se ne ricordano più; invece bisogna mantenere alta l'attenzione da parte dell'opinione pubblica. So che è difficile, ma questo è proprio il potere dei media: è esattamente per questo che un regime militare forte ha paura di una giovane donna, la cui unica arma sono le sue parole».
Per giorni, i familiari di Cecilia Sala non hanno avuto notizie di lei.
Purtroppo lei conosce bene questa angoscia.«Sì, è la cosa più crudele di tutte. Attaccano il tuo cuore, quando prendono qualcuno che ami e non sai nulla del suo destino: è terribile. Ed è il loro modo di agire, sempre, ogni volta».
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