Torino Era diventata il simbolo della notte di terrore, il 3 giugno del 2017, la torinese Marisa Armando, 65 anni, rimasta schiacciata dalla folla che assisteva alla finale di Champions League in piazza San Carlo a Torino, che fuggì come impazzita, temendo un attentato. In quella fuga disperata rimasero ferite 1526 persone, tra queste anche lei, che stava passeggiando con il marito in una strada accanto alla piazza.
Tenacemente attaccata alla vita e sempre con il sorriso sulle labbra, ieri il cuore di Marisa ha smesso di battere ed è morta all'ospedale Cto di Torino, dov'era ricoverata da mercoledì in terapia intensiva per gravi difficoltà respiratorie. «Un'infezione alle vie urinarie le ha provocato una grave disfunzione polmonare - ha spiegato il responsabile del reparto di rianimazione del Cto Maurizio Berardino -. Ai medici aveva chiesto che non le venissero praticate terapie anche mini-invasive, in modo da rimanere sempre cosciente». Lei, che quella maledetta notte si trovò nel posto sbagliato al momento sbagliato, è la seconda vittima di quella sera: la prima fu Erika Pioletti, la trentenne di Domodossola morta schiacciata contro un portone.
Se gli accertamenti medici disposti dalla procura di Torino proveranno che la morte di Marisa Amato è collegata alle lesioni riportate il 3 giugno 2017, i pubblici ministeri titolari delle due inchieste, la prima che vede imputati amministratori e organizzatori dell'evento - già in udienza preliminare, dove si contesta l'omicidio colposo -, la seconda contro la banda dello spray - udienza fissata il 7 febbraio con l'accusa è omicidio preterintenzionale -, dovranno contestare un secondo omicidio. Una vicenda processuale complessa, resa ancora più complicata dalla presenza di un terzo fascicolo d'inchiesta che vede indagati per lesioni colpose due medici dell'ospedale Molinette i quali, secondo l'ipotesi accusatoria, non si sarebbero accorti della lesione alla colonna vertebrale di Marisa Amato, a cui poco dopo verrà diagnosticata una grave tetraplegia.
Al pronto soccorso, secondo l'ipotesi accusatoria, Marisa Amato fu sottoposta ad una Tac ma chi la visitò non si accorse della lesione alla colonna vertebrale, all'altezza della cervicale: una frattura «allineata» e non scomposta, che non aveva ancora danneggiato il midollo spinale: forse sarebbe bastato un collare per evitare la paralisi.
Quest'ultima inchiesta, dovrebbe rimanere autonoma rispetto agli altri due procedimenti, per i quali da settimane si discute la possibile unificazione, il che significherebbe un maxi processo dinanzi la Corte d'assise.
Fino all'ultimo Marisa ha lottato per tornare a vivere una vita dignitosa, con l'aiuto dei figli Viviana e Danilo e del marito Vincenzo D'Ingeo. Dopo un lungo periodo trascorso in ospedale era riuscita a tornare a casa, lo scorso giugno.
In questi mesi i figli hanno creato una onlus «I Sogni di Nonna Marisa», attraverso la quale raccolgono fondi per i malati in difficoltà, coinvolgendo anche diversi campioni dello sport. Proprio di recente il primo risultato: grazie alle donazioni potrà essere operato per recuperare l'uso delle gambe un ragazzino di 12 anni.
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