La Rai deve adeguarsi ai nuovi scenari editoriali

La questione non riguarda solo la sorte della Rai ma l'intero sistema informativo italiano ed il funzionamento della democrazia nel nostro Paese

La Rai deve adeguarsi ai nuovi scenari editoriali

Nessuno sa bene quali siano state le indicazioni emerse dalla consultazione promossa dal ministero per lo Sviluppo Economico ed a cui hanno partecipato 62 associazioni, 20 enti pubblici, 11 centri studi ed 16 dirigenti Rai. È probabile si debba attendere prima di vederli nel questionario che il governo intende sottoporre ai cittadini su come dovrebbe essere il servizio pubblico radiotv del futuro. Ma in attesa che questa Leopoldina dia qualche risultato e di fronte alle polemiche innescate dal caso Vespa e dirette a ridefinire i confini entro cui deve essere realizzata l'informazione della Rai, appare necessario ricordare che al fondamento del servizio pubblico c'è l'esigenza di fornire una informazione completa ed imparziale.

A giustificazione del servizio pubblico nell'Italia della Costituzione repubblicana, in sostanza, non c'è altro che il rispetto del pluralismo. Che i soggetti privati possono anche non rispettare scegliendo di puntare su una informazione e su una rappresentazione parziale della società in nome dei propri interessi commerciali. Ma che la Rai deve sempre e comunque tenere presente se vuole continuare ad essere l'ente a cui lo stato attribuisce la concessione del servizio pubblico e le risorse per attuare questo compito attraverso gli introiti del canone.

In passato nessuno ha messo in discussione l'identificazione tra pluralismo e servizio pubblico. Anzi, per rendere «plurale» la Rai si è scelta la strada della tripartizione politica ( Raiuno alla Dc, Raidue al Psi ed ai laici, Raitre al Pci), della lottizzazione scientifica secondo i canoni del manuale Cencelli con il Parlamento nel ruolo di «editore».

Con la riforma e le modifiche della Costituzione volute da Matteo Renzi, lo schema è cambiato radicalmente. «L'editore» di riferimento è il governo, che dal 2018 avrà il controllo integrale del Cda, e che gennaio gestisce di fatto l'azienda attraverso il dg trasformato in amministratore delegato provvisto dei massimi poteri.

La scadenza della concessione il 6 maggio, cioè in piena fase di transizione da un sistema all'altro, pone un interrogativo di fondo. È il grado il governo garantire il pluralismo, che è il fondamento del servizio pubblico, attraverso il solo amministratore delegato della Rai? Quali garanzie può offrire senza un qualche bilanciamento da parte del Consiglio di amministrazione e del Parlamento?

La questione si intreccia con un secondo problema, che è totalmente diverso ma addirittura più decisivo. Il mercato televisivo italiano è in via di radicale trasformazione. L'accordo tra Mediaset e Vivendi è teso a dare vita ad un soggetto in grado di operare a livello europeo. Contemporaneamente altri soggetti non domestici ma internazionali come Sky ed Mtv tentano di conquistare nuove quote di mercato contando sulle proprie dimensioni globali. Infine l'ipotesi della creazione di un gruppo multimediale formato da La7 ed il Corriere della Sera costituisce una ulteriore sfida ad una Rai che fino ad ora ha goduto del privilegio della concessione statale e del relativo canone ma che dalla sua rinnovata funzione di servizio pubblico potrebbe essere costretta a diventare una media company ristretta nel territorio nazionale ed in costante difficoltà nel fronteggiare la concorrenza dei gruppi senza vincoli di sorta ed operanti sul mercato mondiale.

Le due questioni non riguardano solo

la sorte della Rai ma l'intero sistema informativo italiano ed il funzionamento della democrazia nel nostro Paese. Forse è il caso che la classe politica se ne occupi con attenzione e senza le solite strumentalizzazioni.

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