Si chiudono le urne, si riaprono i cassetti delle Procure. Il sospetto della giustizia a orologeria si allunga sull'indagine condotta dagli aggiunti Stefano Musolino e Walter Ignazzitto e dai Ros contro il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà, indagato per «scambio elettorale politico-mafioso» previsto dall'articolo 416ter.
Indagati a piede libero (il gip Vincenzo Quaranta ha respinto la richiesta di arresto, la Procura farà appello) il consigliere comunale Pd Giuseppe Sera e il capogruppo Fdi in Regione Giuseppe Neri. Quattordici le persone (sette in carcere, quattro ai domiciliari) che avrebbero condizionato le Regionali 2020 e 2021 e le Comunali di Reggio nel 2020. Tra le accuse ci sono associazione mafiosa, estorsione aggravata dal metodo mafioso, reati elettorali, corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio, falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Neri è un meloniano atipico, arrivato in Fdi dopo una lunga militanza nel Pd. Sera vanta una parentela con Marco Minniti (i rispettivi genitori sono fratello e sorella) e ha girato un po' di partiti dopo aver lavorato anche fianco a fianco con Maria Grazia Laganà (vedova di Franco Fortugno, ucciso alle primarie Pd di Locri) e con Mimmo Crea, considerato il mandante di quell'omicidio.
Daniel Barillà, militante Pd e per i pm «collaboratore del suocero detto Il Duca», alias Domenico Araniti, capo cosca di un casato di 'ndrangheta di Serie A, parlava con il sindaco, di persona e al telefono, e lo avrebbe aiutato a vincere al ballottaggio nel 2020 in cambio di un incarico ben pagato, mettendo così alle spalle i sospetti dietro il tesseramento gonfiato del suo circolo che gli aveva fatto scalare molte posizioni. Anche per Falcomatà il Gip negato l'arresto perché non è certo che il sindaco fosse consapevole delle «ragioni mafiose» dietro l'interessamento elettorale. Eppure tra il primo e il secondo turno Falcomatà «intensificava le relazioni con Barillà e non aveva più remore ad affiancarselo», si legge nelle 1.492 pagine del provvedimento, vista «la necessità di accumulare il consenso decisivo al ballottaggio». Grazie alla complicità di alcuni scrutatori lo stesso Barillà avrebbe depositato materialmente nell'urna le schede di soggetti impossibilitati a votare, compilate coi nomi dei politici favoriti. Peraltro la cosca avrebbe promesso voti anche a candidati «avversi» ai politici coinvolti, i Pd Mimmetto Battaglia e Giovanni Muraca, entrambi non indagati.
Dei tre politici calabresi accostati alla 'ndrangheta, nessuno è in manette. Bisognerebbe dirlo ai magistrati di Genova, che per molto meno hanno ottenuto - in piena campagna elettorale - i domiciliari per il governatore della Liguria Giovanni Toti. Ma tant'è. Ad alimentare qualche malignità sull'iter delle inchieste c'è anche il «peso» politico di Musolino, reggino di nascita e leader nazionale di Magistratura democratica. Il sindaco Falcomatà, che solo qualche mese fa era tornato in sella dopo il periodo sabbatico previsto dalla legge Severino per una condanna relativa a un appalto pubblico un po' troppo disinvolto su un importante albergo della città, reclama la sua onestà. Sembra più vicino il commissariamento del Comune, visto che l'inchiesta si potrebbe saldare con l'indagine sui brogli che coinvolge uno dei delfini di Falcomatà, Antonino Castorina, già accusato di aver fatto votare per se stesso nel quartiere Archi - la Scampia della 'ndrangheta - persone malate o già decedute, grazie ad alcune complicità in Comune e tra gli scrutatori. Un'indagine aperta nell'ottobre 2020, durante gli scrutini, grazie all'intuizione di un paio di poliziotti.
L'affluenza condizionata dai brogli era stata fatale per il massmediologo antimafia Klaus Davi, non eletto consigliere per 50 voti. «Falcomatà mi chiese i voti al ballottaggio. Gli dissi no, sentivo un odore nauseabondo», rivela oggi il giormalista.
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