Nel rissoso caos del Pd, sono in molti a porsi una domanda angosciosa: «Ma Renzi questa scissione la vuole evitare oppure no?». Perché ieri, nel momento di massima drammatizzazione della crisi interna, con Bersani, Emiliano e compagni attaccati alle tende come una novella Paola Borboni a minacciare «ce ne andiamo, guarda che ce ne andiamo» e con tutto il Grande Centro del Pd (da Delrio a Fassino, da Martina a Orlando a Franceschini) che si affannava a cercare mediazioni per evitare la rottura, il segretario del partito non ha esitato ad infilare un paio di dita negli occhi, già provati, della minoranza. Intanto l'annuncio a sorpresa, via enews, della convocazione di un nuovo «Lingotto»: una due giorni (10-12 marzo) a Torino, nello stesso luogo da cui Veltroni lanciò il Pd riformista, per presentare la sua mozione congressuale. E poi la notizia, che ha messo in subbuglio i parlamentari, di un emendamento alla statuto, da votare nell'assemblea nazionale di domenica, che consegnerebbe la titolarità del simbolo Pd al tesoriere Bonifazi, renziano di ferro. Una blindatura che sembra chiaramente mettere in conto la scissione.
E del resto, nelle ore convulse della mattina di ieri, dall'accampamento dei rivoltosi della minoranza, arrivava il grido di guerra: «È deciso - veniva comunicato - sabato ci riuniamo con Speranza, Emiliano, Rossi al teatro Vittoria e annunciamo che non verremo all'Assemblea Pd, che è ormai il partito di Renzi». Panico, contatti frenetici, ministri e capicorrente attaccati ai telefoni, e pare che alla fine sia stato Bersani (che da ex segretario è più in difficoltà a scindersi, tanto più se questo vuol dire finire in bocca a D'Alema) a frenare. Anche perché il problema fondamentale della minoranza Pd è uno solo: quanti posti in Parlamento gli darà Renzi al prossimo giro? Pochi, temono, pochissimi. Meglio allora farsi un partitino in proprio e provare a farsi rieleggere con la soglia del 3%. Ma su questa strada c'è un grosso ostacolo: la nuova sinistra «ulivista» annunciata da Pisapia, che avrebbe sicuramente più appeal elettorale di un assembramento di reduci Pci guidato da D'Alema. Ergo: meglio restare nel Pd e alzare la voce per ottenere più candidature possibili. «Io posso anche andare a casa, ma i miei vogliono essere rieletti», ha spiegato candidamente Bersani ai suoi interlocutori. Di qui il dietrofront, e l'annuncio che la minoranza parteciperà domenica all'assemblea.
E si è messo in moto il Grande Centro Pd per convincere Renzi a fare alcune concessioni: congresso prima delle Amministrative (e non dopo, come volevano i bersaniani per giubilare definitivamente il segretario), ma spostato a maggio, e nel frattempo organizzare una «conferenza programmatica», magari «diffusa sul territorio», come aveva proposto Andrea Orlando. Il quale non ha ancora sciolto la riserva sulla propria candidatura al congresso, che però ieri lui stesso ha messo per ora nel cassetto: «Non ho nessuna particolare propensione a mettermi in competizione, prima dovremmo lavorare sulla cooperazione. Credo che Renzi abbia le energie per guidare questo passaggio e il partito».
Ieri ha partecipato ad una lunga riunione della sua corrente, i Giovani Turchi, scontrandosi con il suo alleato Matteo Orfini, renziano doc, che via Repubblica gli aveva lanciato l'accusa sanguinosa di essere il candidato di D'Alema e Bersani. Orlando incassa la conferenza programmatica e la rottura con Orfini è rattoppata, poi si vedrà. Di qui a domenica, «tutto può ancora succedere», dicono nel Pd.
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