Renzi e la paura di tirare il calcio di rigore

A lla fine del Jobs Act Matteo Renzi non tira l'ultimo rigore. Si rifiuta, come un premier dalle spalle strette, che sulla questione decisiva degli statali si gira di spalle e torna negli spogliatoi. Parla Ichino, parla Poletti, parla Marianna Madia, parlano Sacconi e gli alfaniani imbronciati, parla perfino un sottosegretario. Quando tocca al capo del governo la risposta è pilatesca. Gli statali saranno licenziabili o no? E lui, sul Quotidiano Nazionale , sussurra: «Sarà il Parlamento a pronunciarsi su questo punto». Alla faccia del leader.

Renzi va in tutta Europa a vantarsi della riforma del lavoro e poi non prende posizione sul punto più delicato. Ma la questione statali non è marginale, per almeno due motivi. La disparità di trattamento tra pubblico e privato crea problemi di eguaglianza davanti alla legge. La Spagna di Rajoy quel rigore lo ha tirato, dimostrando all'Europa che le riforme non sono solo chiacchiere. Qualcuno magari quella di Renzi la chiama furbizia. Matteo svicola per non perdere il consenso degli statali, quelli che ormai sono un po' la base elettorale del Pd. Matteo ha un talento nell'annusare le questioni dalle quali è meglio stare alla larga. Matteo lancia il sasso delle riforme e poi, come sempre, nasconde la mano. Solo che ci sono momenti in cui non puoi non metterci la faccia. Anche se non conviene. Anche se rischi di buttarla fuori.

Come cantava De Gregori: «Non è da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia». Bene, forse Matteo fantasia ne ha, ma sul coraggio e sull'altruismo deve ancora lavorarci parecchio.

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