Ormai abituati a una narrazione zuccherosa sull'esito della guerra commerciale tra Usa e Cina, i mercati sono stati gelati ieri dal tweed ruvido come la carta vetrata con cui Donald Trump, domenica scorsa, ha minacciato di colpire Pechino con nuove tariffe punitive. A partire da venerdì prossimo, l'aliquota su 200 miliardi di dollari di merci del Dragone passerà dal 10% al 25%; e nel prossimo futuro, un'ulteriore tagliola del 25% potrebbe scattare su altri 325 miliardi di prodotti importati dalla Cina. È un rimescolare le carte che riporta tutto in alto mare, frutto forse dell'idea trumpiana che tenere sotto scacco l'avversario a poche ore dalla ripresa dei negoziati a Washington sia un modo per portare a casa la vittoria.
Peccato, però, che un simile posizionamento tattico incorpori qualche effetto collaterale. Il primo, e più evidente, è che l'ex Impero Celeste starebbe valutando di annullare la missione nella capitale Usa, prevista per domani; in subordine, l'idea sarebbe quella di depotenziare il summit privandolo della presenza di Liu, il capo negoziatore. Un modo per vedere se la Casa Bianca stia bluffando per forzare la mano, oppure se davvero faccia sul serio. L'altro è che i cinesi hanno subito fatto capire di intendere usare l'arma della svalutazione dello yuan, sceso verso quota 6,8 sul dollaro, per controbilanciare gli effetti dei dazi. Un tit for tat (il cosiddetto pan per focaccia) esportato sul terreno valutario. Poi, ci sono le ricadute sulle Borse. Pesantissime sui mercati asiatici, dove Shanghai è crollata del 5,7%, Shenzen è affondata del 7,2%, Hong Kong ha lasciato sul terreno il 2,9% e Tokio si è salvata solo perchè chiusa per festività. Più contenute in Europa grazie alla sostanziale tenuta di Wall Street (-0,55% a un'ora dalla chiusura). Ma i ribassi compresi fra l'1% di Francoforte e l'1,6% di Milano (dopo un tuffo fino a -2,3%) non vanno comunque sottovalutati, visto che la reazione di ieri mostra l'ipersensibilità degli investitori, la cui avversione al rischio s'impenna non appena le posizioni dei duellanti si irrigidiscono. Con conseguenze molto negative per quei titoli, come i tecnologici e gli automobilistici, su cui più direttamente impattano i dazi. Cosa può succedere nei prossimi giorni? Spiega Alessandro Parravicini, strategist di Swann Asset Management: «Cinque mesi di rialzi espongono i mercati al rischio di un consolidamento. Se entro 48 ore la situazione non si chiarisce, sono da mettere in conto altre prese di profitto».
Resta da capire quale motivo abbia spinto Trump a rovesciare il tavolo, quando fino a solo pochi giorni fa l'intesa con la Cina sembrava a portata di mano. Al punto da indurre il presidente Usa a inondare la rete di cinguettii al miele dove parlava di un accordo che sarebbe stato «meraviglioso, il più grande di sempre». In un tweet, ieri mattina, The Donald si è limitato a ricordare che «gli Stati Uniti stanno perdendo, da molti anni, dai 600 agli 800 miliardi di dollari l'anno in commercio. Con la Cina perdiamo 500 miliardi di dollari. Scusate, ma non succederà più!». Improbabile che il cambio di tono sia legato ai nodi ancora irrisolti sul furto della proprietà intellettuale. Più verosimile che sia farina del sacco di un falco come il rappresentante commerciale Usa Robert Lighthizer, noto per le sue posizioni intransigenti nei confronti di Pechino e su questo fronte più ascoltato dal tycoon del ministro del Tesoro, Steven Mnuchin, e del consulente economico, Larry Kudlow.
Lighthizer spinge da tempo affinchè i cinesi accettino il mantenimento dei dazi fino a quando Pechino non avrà dimostrato di rispettare i termini dell'accordo. Non è del resto la prima volta che Trump adotta questa tattica negoziale. Con Messico e Canada gli è andata bene, ma con la Cina questo modus operandi rischia di rivelarsi un boomerang.
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