È sicuramente una buona idea propagandistica quella di Matteo Renzi di far precedere il rinnovo della concessione di servizio pubblico alla Rai da un sondaggio-consultazione su ciò che i cittadini si aspettano dall'azienda radiotelevisiva di Stato. «La Rai è degli italiani - ha detto Renzi con la solita carica di demagogia - e quindi dicano gli italiani cosa vogliano dalla Rai».
Da un punto di vista concreto, però, la trovata serve solo a prendere tempo. Il contratto di concessione scade il 6 maggio ma per questa data ormai incombente il governo non avrà ancora completato la definizione del decreto attuativo della legge che prevede l'innovazione del pagamento del canone sulla bolletta della luce. Di qui la necessità di prendere tempo per mettere a punto il provvedimento. E l'idea di farlo inventando una consultazione popolare che produrrà null'altro di quanto non si sappia già da tempo. Cioè che agli italiani piacerebbe una Rai provvista di due caratteristiche di fondo ma entrambe impossibili: la gratuità e la qualità.
Non saremmo tutti contenti se si potesse abolire il canone? Certo. Ma non si può. Perché se si facesse la Rai diventerebbe una azienda commerciale destinata a competere, dalle posizioni di privilegio lasciate in eredità prima dal monopolio e poi dal duopolio, con le altre aziende del settore. Le conseguenze su un mercato depresso sarebbero devastanti per le concorrenti e per la Rai stessa. E la qualità ne sarebbe la seconda ed inevitabile vittima spianando la strada non all'ingresso controllato delle media company ma ad una vera e propria colonizzazione culturale del paese.
La qualità rimane la seconda e scontata caratteristica della Rai auspicata dagli italiani. Già. Ma chi dovrebbe fissare gli standard di questa tanto agognata qualità? L'Auditel, con i suoi indici di ascolto? Una assemblea di critici televisivi magari presieduta da Aldo Grasso? Un comitato formato da tutti i giudici degli infiniti programmi su talent in onda in Italia in cui inserire obbligatoriamente la Lucarelli, Scanzi e Fedez (per fare rabbia a Gasparri)? Oppure scaricare il peso della valutazione della qualità sulle sole spalle del direttore generale-amministratore delegato trasformandolo, suo malgrado, in una sorte di Minosse renziano dalle responsabilità insostenibili? Anche questo, allora, appare come un auspicio impossibile.
Fino ad ora i criteri di valutazione della qualità sono stati molteplici. Un po' di criterio commerciale, un po' di estetica crociana (sempre di meno), un po' di analisi gramsciana. Il tutto condito con tanta salsa cattolica ed, alle volte, con il buon senso. Di qualità, in sostanza, ce ne sono state una infinità.
Tante quante richieste da un Paese che è storicamente il trionfo delle diversità.E se la consultazione-sondaggio confermasse che l'unico servizio pubblico a cui gli italiani aspirano è quello capace di dare sempre conto di queste diversità?
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