Annuncia il voto contro la fine di un «governo effimero, di circostanza e di apparenza», consapevole che la sua posizione sarà decisiva per dare la spallata finale. «A chi mi dice di scegliere la politica del tanto peggio, dico che il peggio sarebbe non sfiduciare questa Finanziaria, questo governo, questo fallimento». Marine Le Pen conferma il voto favorevole alla «mozione di censura» al governo di Michel Barnier in un'Aula carica di tensione, tra urla e fischi. Non è un momento storico solo per la Francia, che per la prima volta dal 1962 vota la sfiducia all'esecutivo. È un momento cruciale anche per lei, la leader dell'estrema destra che ha fatto di tutto negli ultimi vent'anni per guadagnare credibilità, mostrare responsabilità e senso delle istituzioni, per togliersi di dosso - e toglierlo al partito - lo stigma di «diavolo» della politica francese, sempre pronto a rispondere ai bisogni più estremi della Francia profonda, a costo di dividere il Paese. Eppure Marine ha deciso di unire i voti del suo Rassemblement National a quelli degli ultranemici della sinistra francese pur di cacciare Barnier, con il rischio di perdere quell'elettorato moderato che negli ultimi anni ha smesso di guardarla con sospetto. Tutta colpa di un premier che «non ha voluto cercare le vie della conciliazione nazionale» - attacca lei all'Assemblée Nationale - colpa di «intransigenza, settarismo e dogmatismo» dei ranghi governativi, che «hanno impedito di fare la minima concessione per evitare questo risultato». «Le istituzioni ci costringono a mescolare le nostre voci con quelle dell'estrema sinistra», ha spiegato per giustificare di essersi accodata a una mozione che addita il suo stesso partito, accusando il governo Barnier di «aver ceduto alle più vili ossessioni dell'estrema destra».
Marine Le Pen gioca una partita personale a suo modo storica, divisa fra l'ambizione di raggiungere l'Eliseo nel suo quarto e ultimo tentativo e il timore di essere fermata dalla giustizia francese, quando il 31 marzo dell'anno prossimo i giudici stabiliranno se rischia il carcere, o peggio la morte politica, con l'ineleggibilità per aver distratto fondi europei a favore del suo partito. Per smarcarsi dal leader dell'ultragauche, Le Pen spiega di voler lasciare al «cheguevaristi da carnevale» (leggasi la France Insoumise di Jean Luc Mélenchon) la richiesta di uscita di scena del capo dello Stato prima del 2027, data delle prossime presidenziali. Ma rimarca che è «alla coscienza» di Macron scegliere «se sacrificare l'azione pubblica al suo orgoglio, se ignorare l'evidenza di una sfiducia popolare massiccia», che lei reputa «definitiva». Il giudizio finale della leader del Rassemblemet è impietoso e sottolinea un giro di boa nella politica francese. «Se deciderà di restare - dice di Macron - sarà costretto a rendersi conto di essere il presidente di una Repubblica che non è più, per colpa sua, la Quinta». Sono parole pesanti. D'altra parte, sia Le Pen che Barnier parlano di «momento della verità», anche se Marine rassicura i francesi che una Finanziaria ci sarà ed eviterà «i tragici errori del passato, 40 anni di politica economica tossica», di cui Barnier sarebbe «il continuatore».
Non chiede le dimissioni di Macron ma è a quelle che pensa, sperando in un lento e inesorabile logoramento del presidente. Per questo non fa che ripetere che il capo dello Stato ha già utilizzato due delle tre prerogative che gli concede la Costituzione: rimpasto di governo e scioglimento delle Camere. Gliene resta solo un'altra: l'addio anticipato. Che se coincidesse con una sua condanna all'ineleggibilità potrebbe persino trascinare la Francia in una situazione all'americana, con la candidata all'Eliseo punita dai tribunali.
Il nodo delle prossime settimane è capire come reagiranno alla sua mossa gli elettori e quegli indecisi che hanno cominciato a guardare a Rn con occhi ben più indulgenti che ai tempi di papà Jean-Marie. Per questo Marine Le Pen e i suoi spiegano di aver cercato fino alla fine un'intesa e accusano Barnier e il suo Gabinetto di aver voluto sbattere la porta in faccia alla destra e di conseguenza alla volontà popolare di 11 milioni di elettori (i voti del Rn al primo turno delle ultime legislative, in cui il partito è arrivato primo, per poi vedersi sbarrata la strada dal «fronte repubblicano» al secondo turno).
I moderati e i macroniani la accusano di irresponsabilità. Lei, dopo la sfiducia, commenta soddisfatta in tv, ergendosi a paladina della classe media piegata da tasse e carovita: «Abbiamo scelto di proteggere i francesi». A loro l'ardua sentenza.
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