Spie, sabotatori e l'ipotesi del bluff di Roman

La pista del veleno porta agli uomini di fiducia di Putin. Dubbi sull'oligarca

Spie, sabotatori e l'ipotesi del bluff di Roman

Gli occhi azzurro chiari e la faccia da bimbo appena invecchiato ingannano. In realtà nessuno ha saputo navigare in trenta anni di storia russa con la stessa spregiudicatezza di Roman Abramovich: oligarca tra i più famelici, enfant prodige di casa Eltsin, poi trait d'union tra gli oligarchi stessi e il potere di Putin. Chris Hutchins, giornalista inglese che ha pubblicato le biografie di entrambi, ha scritto che tra i due c'è il rapporto di un padre con il figlio preferito.

Forse anche per questo nella storia del presunto avvelenamento c'è chi dubita della versione dello stesso Abramovich. Di prove non ce ne sono, nessuno ha pensato di prelevare in tempo utile dei reperti per farli analizzare. Catherine Belton, nel suo «Gli uomini di Putin», ha scritto che Abramovich comprò il Chelsea su indicazione di Putin che voleva migliorare l'immagine della Russia e avere una carta da giocare in un settore importante come il calcio. Il miliardario ha fatto causa e le parti si sono accordate per una versione più soft da inserire nelle nuove edizioni del libro, senza più l'intervento del Cremlino.

La sostanza però rimane: Abramovich è da sempre la versione più presentabile del potere dei soldi russi. E la sua capacità di giocare su più tavoli è confermata in questo caso dal fatto che a chiamarlo al tavolo delle trattative sia stato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

La vicenda del veleno, nel cioccolato o nell'acqua, le uniche cose che le persone coinvolte hanno mangiato o bevuto, resta comunque tutta di scrivere. Secondo la prima interpretazione dello stesso Wall Street Journal, che ha dato la notizia, a idearla sarebbero i «duri» del regime putiniano, pronti a sabotare gli accordi di pace. Sarebbe una notizia importante visto che presuppone l'esistenza di più linee di pensiero all'interno del Cremlino. L'idea prevalente tra gli analisti è che in realtà di linea ce ne sia una sola: quella di zar Vladimir. E che ormai, come nei film sui despoti orientali, siano ormai pochissime le persone in grado di vederlo o di influenzarlo. Fino a qualche settimana fa c'era di sicuro il ministro della Difesa Serghey Shoigu, che ora in molti danno in disgrazia o semplicemente poco presente per un infarto. I sicuri interlocutori restano due: Nikolai Patrushev e il meno noto Jurij Kovalchuk. Il primo, presidente del Consiglio di sicurezza, è la quintessenza della spia ed è anche lui un ex Kgb. A Patrushev si deve la definizione di «nuova nobiltà» riferita agli uomini dei servizi di sicurezza, destinati a incarnare ormai l'élite del Paese.

Kovalchuk, invece è invece, secondo molti, il «banchiere» di Putin. Michail Zygar, uno dei più noti giornalisti russi, uno dei quattro ad aver intervistato nei giorni scorsi il presidente ucraino Zelensky, dice anche di più: che è il vero e proprio numero due del regime. Primo azionista di Bank Rossya, padrone del National Media Group a cui fanno capo giornali e televisioni, è amico del presidente dai primi anni Novanta.

Il rapporto tra i due si è rafforzato nei mesi del Covid: secondo le voci di palazzo Kovalchuk è stato tra i pochissimi autorizzati a violare lo stretto isolamento che Putin si

era imposto. Nelle lunghe ore trascorse insieme nei momenti peggiori della pandemia sarebbero state elaborate le tesi sul ruolo storico dell'attuale classe dirigente, incaricata di riportare la Russia all'antica grandezza.

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