«Se invece ti detesto e neanche tu mi ami, vieni e sarem la coalizione di domani». Satira profetica più che politica quella di Corrado Guzzanti quasi trent'anni fa. Quantomai aderente alla congerie che fino a ieri ha fatto propaganda per il No al referendum costituzionale. Un'armata Brancaleone che tiene insieme tutto e il suo contrario: a volte per valide ragioni, a volte perché recitare la parte del bastian contrario è consustanziale al personaggio. E con la speranza (visti i pronostici avversi) di replicare il successo del rassemblement che nel 2016, opponendosi alla riforma costituzionale di Renzi, licenziò il Rottamatore da Palazzo Chigi condannandolo al declino.
L'ultima a unirsi al carrozzone è stata la senatrice a vita, Liliana Segre. «Voterò No perché il Parlamento è l'espressione più alta della democrazia. Quindi sentir parlare di questa istituzione che fa parte della mia religione civile come se tutto si riducesse a costi e poltrone, è qualcosa che proprio non mi appartiene», ha dichiarato a Repubblica. Sedendosi virtualmente dalla parte di chi non mette la Shoah e la questione ebraica nella lista delle priorità. Come il leader di CasaPound, Simone Di Stefano. «Non è questo il momento storico di ridurre la rappresentanza del popolo italiano in Parlamento, ora che poteri finanziari e sovranazionali tremendamente forti e pervasivi mettono sotto attacco quotidianamente la sovranità popolare», twittò qualche settimana fa mettendo in guardia i «camerati» dal complotto demo-pluto-massonico celato nel quesito referendario.
Si potrebbe obiettare che i referendum, per natura, creano fronti trasversali. Ma forse mai come in questo caso hanno riunito gli estremi opposti. Da un lato l'antifascismo come rimedio all'horror vacui delle Sardine («Voto No perché questo referendum puzza di ipocrisia e di populismo, siamo di fronte a un'operazione taglio alle poltrone col culo degli altri», ha detto il portavoce Mattia Santori). Dall'altro lato, Giancarlo Giorgetti, numero due di quel Matteo Salvini che i «pesciolini» aborrono. «Voterò No convintamente, è una deriva da evitare», ha detto l'ex sottosegretario leghista spiazzando i fedelissimi del Capitano.
Ma, d'altronde, Giorgetti, che quel taglio ai parlamentari lo votò in Parlamento, non ha fatto che replicare le mosse del collega renziano Roberto Giachetti che alla Camera si espresse a favore e poi si mise immediatamente all'opera per il comitato del no. E nel Pd è in buona compagnia del padre fondatore Romano Prodi («Il numero dei parlamentari non il vero problema») e dell'obamian-clintoniano Walter Veltroni («Non si tagliano i parlamentari senza una riforma complessiva»).
Riposizionamento di una sinistra riformista rispetto a quella troppo schiacciata sul populismo pentastellato? No, perché anche il centrodestra si trova dalla stessa parte. Con Renato Brunetta di Forza Italia («Se vince il Sì, vince l'antipolitica»), Guido Crosetto di Fdi («Un taglio ai parlamentari sull'onda dell'anticasta è inaccettabile») e un Vittorio Sgarbi, inferocito contro la protervia di Luigi Di Maio. Non è l'unico ossimoro di questo asse inusitato. Il «fronte del No» accomuna esponenti illustri della Prima (e anche della Seconda) Repubblica come Paolo Cirino Pomicino, Ciriaco De Mita e Clemente Mastella e anche politici che «picconarono» il pentapartito come Mario Segni, promotore dei referendum su preferenza unica e maggioritario, ed Emma Bonino, al fianco di Marco Pannella nella lotta alla partitocrazia degli anni '80.
Strana la vita? Forse è ancor più strano vedere schierati convintamente contro il taglio il composto economista ed europeista, Carlo Cottarelli («Una finta riforma che fa solo danni») e il folcloristico ipersovranista, anti-euro,
anti-vaccini nonché negazionista del Covid, Antonio Pappalardo, che ha lanciato un appello su YouTube al grido di «Votate No! Stanno uccidendo la democrazia!». Se l'obiettivo è mandare a casa Conte & C., in fondo vale tutto.
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