«Non è un bluff». Il discorso di Vladimir Putin di ieri, non è stato duro solo nella forma. Anche nella sostanza ha segnato una svolta profonda nella tradizionale dottrina nucleare russa: la minaccia è diventata più concreta e immediata. Mai, perfino a guerra Ucraina già iniziata, il Cremlino si era spinto così platealmente lontano.
Nel giugno del 2020 gli strateghi di Mosca avevano per la prima volta esplicitato in un decreto presidenziale le condizioni di impiego delle armi atomiche, pubblicando un ordine esecutivo sui «Principi base della deterrenza nucleare». La condizione chiave era la messa a rischio, pur con armi convenzionali, dell'«esistenza dello Stato». Qualora si fosse verificata questa eventualità la Russia si sarebbe sentita libera di colpire per prima. Più volte gli esponenti del regime, avevano ribadito la validità dei principi stabiliti nel 2020: lo aveva fatto il portavoce Dimitri Peskov e ancora alla fine di marzo perfino un «duro» come l'ex presidente Dmitri Medvedev. Ieri Putin ha cambiato strada. Per salvaguardare «l'integrità territoriale del nostro Paese e per difendere la Russia e il nostro popolo faremo certamente uso di tutti i sistemi d'arma a nostra disposizione», ha detto. Qualche istante dopo, accanto all'integrità territoriale, Putin ha citato tra le ragioni che possono giustificare l'impiego di ogni strumento bellico, «la difesa dell'indipendenza e della libertà» dei cittadini russi. Concetti di ben più amplia latitudine rispetto a quelli precedenti.
È quello che le forze imperiali e nazionalistiche del regime chiedevano da tempo all'inquilino del Cremlino: una dichiarazione di guerra totale a quello che in Russia viene definito «l'Occidente collettivo». È la posizione del partito della guerra, che secondo le valutazioni più diffuse, riprese ieri dal sito Meduza, ha in questo momento tra gli esponenti più attivi Andrey Turchak (segretario della presidenza del partito di Putin, Russia Unita), il già citato Medvedev e il comandante della Guardia nazionale Viktor Zolotov.
È anche la posizione sintetizzata dai media di regime, passati ufficialmente dalla modalità «operazione speciale» a quella più estrema: adesso è la sopravvivenza stessa del mondo russo ad essere in pericolo. A sintetizzare efficacemente la nuova situazione era ieri l'editoriale online del Moskovskij Komsomolets (Mk), uno dei giornali più popolari a Mosca e in tutto il Paese. «Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, la Russia è diventata il nuovo obiettivo. L'Ucraina, in questo processo, ha agito solo come una testa d'ariete...a combattere l'esercito russo non sono solo l'Ucraina, ma tutto il potenziale militare-industriale dell'Europa e degli Stati Uniti. Ciò significa che questo non è più un conflitto tra due paesi. Questa è una battaglia in cui il nemico punta non a difendere l'Ucraina, ma a distruggere la Russia».
L'apoteosi di questo atteggiamento si ritrova sui canali televisivi pubblici ma soprattutto sulle frequenze e sul sito di Tsargrad, la televisione dell'oligarca Kostantin Malofeev, ricco uomo d'affari ma anche ideologo della Russia di Putin. Qui ha fatto la sua ricomparsa, dopo il lutto legato alla morte della figlia, il filosofo Alexander Dugin, che in vista della mobilitazione militare del Paese ha tratteggiato quelli che per lui sono gli scenari del conflitto. Definirli apocalittici è perfino riduttivo.
Quelli estremi sono la fine della Russia «per opera dell'Anti-Cristo» (l'alleanza tra Ucraina, Stati Uniti ed Europa) e al contrario la vittoria delle «forze del bene» (la Russia) contro «le forze del male» (Nato e sodali). In mezzo c'è la fine del mondo. Perchè, dice Dugin, un modello a cui guardare è quello di Salvador Allende «che ha combattuto con una mitragliatrice in mano fino all'ultimo.
Ma la differenza (rispetto a Putin; ndr) è che Allende non aveva un pulsante nucleare. Poteva sacrificare solo se stesso e un paio di nemici». Il Cremlino le bombe le ha, per la gioia di Dugin e la preoccupazione del resto del pianeta.
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