Assieme alla verità, una delle prime vittime di ogni guerra è la libera manifestazione del pensiero, con tutto ciò che comporta: la pubblicazione di libri, il confronto politico e filosofico, la ricerca scientifica, la circolazione di idee, di opere e di spettacoli, la cooperazione culturale fra nazioni coinvolte nel conflitto e i loro alleati. La guerra scatenata dalla Russia di Putin contro il popolo ucraino, oltre a morti, feriti e distruzione, ha travolto l'intera attività culturale nelle due nazioni. In Ucraina, perché quando è in ballo la sopravvivenza tutto il resto passa in secondo piano, persino la scuola; in Russia, perché il mondo intellettuale vive inevitabilmente una profonda lacerazione di fronte alla tragedia in corso. Due settimane fa un gruppo di matematici russi ha scritto una lettera aperta contro la guerra in Ucraina. Il testo, pubblicato sulla rivista Troitsky Variant (e tradotto in inglese sul sito dell'European Mathematical Society), è stato firmato, a oggi, da circa ottomila scienziati. Per reazione, ieri, il ministero della Giustizia russo ha inserito la testata nell'elenco dei media considerati «agenti stranieri». Così, schiacciati fra i due eserciti, sul campo rimangono le istituzioni culturali e i singoli intellettuali. E se da una parte Mosca ha bloccato la partecipazione dei propri accademici a congressi all'estero e la pubblicazione dei loro lavori su riviste internazionali, la conferenza dei rettori in Russia, in cui sono rappresentate circa 700 università, ha sottoscritto una dichiarazione di totale sostegno al presidente Vladimir Putin, che «ha preso la decisione più difficile, ma necessaria, della sua vita». La Storia, pur con tutte le sfumature e le differenze immaginabili, come è noto tende a ripetersi. In ogni regime del passato, come in quelli di oggi, gli intellettuali e i professori finiscono col dividersi fra una minoranza di dissidenti, capaci di dire «No», e una maggioranza di allineati: chi per convinzione, chi per necessità, chi per opportunismo, chi per ignavia. E in mezzo, a complicare le cose, un Occidente ambiguo e confuso, anch'esso separato fra quanti si fanno tentare da irrazionali censure a scrittori di ieri (il Fëdor Dostoevskij boicottato da un'università milanese) e folli richieste di abiura ad artisti di oggi (il sindaco Giuseppe Sala che ha allontanato Valery Gergiev dal podio della Scala), e quanti invece tendono una mano al mondo delle arti e delle scienze rimasto sotto l'ombrello di Mosca: è il caso di alcune istituzioni che offrono sostegno e accoglienza ad accademici russi con lo stesso spirito con cui lo offrono a professori e studenti ucraini. Come durante la Guerra Fredda - corsi e ricordi della Storia - ci sono molti scrittori e studiosi, al di là della vecchia Cortina di ferro, che vogliono lasciare il Paese, e chiedono aiuto ai loro contatti in Occidente. Ma a differenza di allora, da questa parte del «Muro» molti Paesi hanno preferito interrompere i legami fra istituti di ricerca a livello governativo, senza alcun distinguo fra quanti hanno scelto di allinearsi e quanti hanno scelto di opporsi all'azione di Putin. In Gran Bretagna, ad esempio, il ministro per la Scienza e l'Innovazione, George Freeman, ha annunciato il taglio delle relazioni nel settore della ricerca e i finanziamenti a qualsiasi progetto con «collaboratori istituzionali» in Russia. La paura paralizza tutti. Ed è comprensibile.
Ma siamo sicuri che sia giusto, come chiede Taras Lazer, professore ucraino di Lingua e letteratura italiana all'Università «Borys Grinchenko» di Kiev, mettere al bando le opere russe, indistintamente, perché la cultura è uno strumento politico, «usata e abusata da Putin per giustificare ogni male»? O che la Russia non sia presente in nessuna forma alle grandi manifestazioni culturali internazionali, neppure alla Biennale di Venezia?
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