Quello di Mario Draghi è una sorta di contro-ultimatum. Ponderato e consapevole, con i toni di chi sembra sul punto non avere più alcuna esitazione. «Non c'è governo senza M5s e non ci sarà un Draghi 2», dice il premier in conferenza stampa con una nettezza che lascia pochi dubbi. Due paletti giganteschi sui destini di una legislatura in bilico da settimane e che restringono di molto il campo di gioco. Per tutti. Non solo per Giuseppe Conte, che se giovedì in Senato dovesse decidere per lo strappo, è avvertito di quali saranno le conseguenze e se ne dovrà quindi far carico davanti al Paese. Ma anche per gli altri interlocutori. Quelli nella maggioranza, visto che è stato Silvio Berlusconi il primo a chiedere una verifica se davvero il Movimento decidesse di sfilarsi. E quelli istituzionali, perché il Quirinale vuole tutto fuorché salti nel vuoto, giustamente preoccupato non solo dalla guerra, ma anche dalla recrudescenza del Covid e da un'inflazione destinata a galoppare, con tutti i contraccolpi per i ceti più deboli. Poi c'è il Pnrr ancora da registrare e la legge di Bilancio da chiudere entro il 31 dicembre. Oltre, ovviamente, al nuovo patto sociale che il premier ha messo sul tavolo ieri nell'incontro con i tre leader di Cigl, Cisl e Uil: soldi per bollette e benzina subito, taglio delle tasse sul lavoro a gennaio e un intervento sul salario minimo. Una road map disegnata in due tappe: la prima a fine mese, quando il Consiglio dei ministri varerà il nuovo decreto Aiuti, la seconda a fine anno con la legge di Bilancio. È l'ultima mano tesa a Conte. Di più Draghi non è disposto a concedere. Con buona pace degli scenari di crisi, perché è arrivato il momento in cui tutti si devono assumere le loro responsabilità. Questa è la linea del premier che, racconta chi ha avuto occasione di sentirlo, sembra non essere più disponibile a fare da parafulmine alle esigenze elettorali di questo o quel partito. Tanto dal non preoccuparsi neanche più dal nascondere un'evidente irritazione.
Certo, molto dipenderà da come si comporterà domani il M5s durante il voto di fiducia in Senato. Ma anche da come Conte risponderà a Draghi oggi, dopo aver riunito il Consiglio nazionale del Movimento. Il premier la prima mossa l'ha fatta, riconoscendo che sì, i temi discussi con i sindacati «vanno esattamente nella direzione» della lettera che gli ha consegnato il leader grillino e che ci sono «molti punti di convergenza». Ora - a prescindere dal fatto che una parte dei senatori del M5s decida di disertare la fiducia - da Palazzo Chigi aspettano un segnale del leader grillino. Una presa di posizione chiara sul governo. A quel punto si deciderà il da farsi. Che è legato anche alle mosse del resto della maggioranza. Il fatto che ancora ieri sera Matteo Salvini ci tenesse a sottolineare di pensare «l'esatto contrario» di Draghi su un tema così delicato come lo scostamento di bilancio, infatti, la dice lunga su quanto lo scenario si vada complicando. Non a caso, con al suo fianco un Giancarlo Giorgetti che non ha proferito parola per tutta la conferenza stampa, ieri il premier ha mandato un messaggio proprio al leader della Lega: «Ai tanti che sostengono che a settembre faranno sfracelli e minacciano cose terribili, dico che un governo non lavora con gli ultimatum». Anzi, a quel punto l'esecutivo «perde la sua ragione di esistere». E quando gli chiedono se ce l'ha con Salvini si guarda bene dal dire di no: «Metteteci il nome che volete».
Draghi, insomma, traccia la sua linea del Piave.
Oltre, lo dice due volte, la palla passa al Quirinale. «Se ci sarà il rinvio alle Camere in caso di mancato appoggio del M5s chiederlo al presidente della Repubblica», spiega l'ex Bce. Che invece su un punto è chiaro: non sarà lui a guidare un eventuale nuovo esecutivo.
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