Unico e irripetibile. Un vero combattente ma quasi mai dalla parte giusta

L'amicizia e l'avventura della nascita di "Repubblica", i tentativi in politica, il passato fascista, le solenni riunioni in redazione, l'addio alla direzione. L'uomo e il giornalista visti da vicino

Unico e irripetibile. Un vero combattente ma quasi mai dalla parte giusta

Quando eravamo molto amici e lavoravamo insieme capitava di sfiorare l'argomento della morte e Eugenio Scalfari sorridendo mi diceva: quando arriverà il momento pensaci tu. Adesso il momento è arrivato e trova disarmato me e tutti coloro che l'hanno conosciuto e coloro che lo hanno adorato. Io appartengo alla seconda schiera: fino alla metà degli anni Ottanta adorai quest'uomo unico, irripetibile e non paragonabile ad alcun altro giornalista italiano o straniero. Tanto per cominciare Scalfari non era un giornalista ma lo diventò quando fece un suo giornale ai tempi dell'Espresso e poi più ancora quando fondò quasi per ripicca il rivoluzionario quotidiano in formato tabloid che si chiama Repubblica. Con quel giornale straccio tutte le tradizioni dei quotidiani canonici, inventò la riunione di redazione come messa solenne, fece sparire la terza pagina di cultura inventando un paginone che si ampliò ai dibattiti e alle arti. Scalfari puntava sulle firme più scintillanti dell'epoca e aveva un rapporto di odio amore con l'unico che gli potesse tener testa: Indro Montanelli.

Con coraggio spudorato, lui come Giorgio Bocca, Indro Montanelli e pochissimi altri rievocava con nostalgia incolpevole l'incommensurabile amore che aveva avuto per il fascismo di cui apprezzava prima di tutto la sgargiante uniforme con lo spadino. In mezzo alla guerra, scrisse due articoli per il giornale studentesco in cui sosteneva che il fascismo purtroppo cadeva perché tradito da affaristi, magnoni, parassiti. Il segretario fascista dell'epoca, certo Costa, lo convocò nella sede del partito e gli chiese brutalmente di fare i nomi di questi traditori. Il giovane fascista Scalfari non aveva alcun nome da offrire perché, come confessò, aveva inventato tutto per farsi bello davanti ai gerarchi. E così fu letteralmente spogliato dal segretario fascista che dopo avergli strappato le mostrine alla maniera di Dreyfus, lo schiaffeggiò gridandogli di andare fuori dal partito fascista, che non aveva bisogno di cialtroni come lui. Invitato in televisione a parlare del libro in cui raccontava questa storia, modifico con un colpettino gli avvenimenti che aveva da poco stampato in questo modo: mi rendevo conto già allora che il fascismo fosse fradicio e che avesse bisogno di un potente scrollone per essere abbattuto nella guerra ormai persa. Non era vero, stava inventando, così come ha sempre fatto, in maniera letteraria, ai limiti dell'innocenza. Scalfari ha creato un tipo di giornalismo «da campagna»: cioè che agisce soltanto per raggiungere un fine politico si tratti di attaccare a sangue Bettino Craxi, poi Silvio Berlusconi e poi tutti i nemici di Ciriaco De Mita, incluso Francesco Cossiga il quale per anni andò a pranzo a casa sua ogni venerdì ma poi divento il matto da cacciare dal Quirinale. Eugenio inventò anche un'arma segreta: il cono d'ombra. Non è soltanto una figura retorica. È uno strumento di tortura che equivale alla morte civile. Io lo so perché l'ho sperimentato: ero passato alla Stampa, rompendo con i sodalizi e l'autocompiacimento della antica casa madre di Repubblica.

Ma ci siamo sempre voluti bene ugualmente. È questo fa onore a lui che è stato un grandissimo combattente quasi mai dalla parte giusta. L'ultima volta lo incontrai in una piccola libreria antiquaria. Arrivò sorretto da due giovani che gli permettevano di camminare malgrado una forma di artrosi molto fastidiosa. All'inizio finse di non riconoscermi, poi mi comunicò che ero molto cambiato e non sembravo più me stesso. Erano parole che significavano: ti ho perdonato e sei autorizzato a rivolgermi la parola. Gli raccontai che cercavo dei libri sul 1943 per scrivere di quell'anno e lui esclamò: «Il 1943 fu un anno ancora fascistissimo. Purtroppo il mio amico Italo Calvino aveva la strada facile per sfuggire al servizio militare: bastava che aprisse la porta posteriore della sua casa in montagna e se ne andava nei boschi facendo il partigiano. Io, dietro la porta di casa mia, avevo il Vaticano e dunque feci il partigiano dentro la Santa Sede. Italo Calvino fu il suo tormento oltre che il suo compagno di banco al liceo di Sanremo dove la famiglia Scalfari si trovava perché il padre di Eugenio dirigeva il casinò. Racconteranno più tardi entrambi, Eugenio e Italo, che il futuro autore del Cavaliere inesistente era già diventato in cuor suo comunista e lo comunico con segreta trepidazione all'amico Eugenio che viceversa era un patriottico monarchico oltre che fascista. Più tardi Italo Calvino scrisse delle lettere ferocissime contro l'amico Eugenio criticando quella che a lui sembrava pura codardia, incapacità di scegliere di fronte alla tragedia in cui l'Italia fascista si era ficcata.

Scalfari era entrato in politica per caso: condannato in primo grado con Lino Jannuzzi per gli articoli pubblicati sull'Espresso in cui si raccontava di un ipotetico golpe ordito dal presidente Segni e dal comandante dei carabinieri (storia che si rivelò poi del tutto falsa), Scalfari chiese aiuto al segretario del partito socialista Giacomo Mancini che candido lui a Milano e Jannuzzi a Sapri. Eletti entrambi Eugenio si scatenò in una guerriglia all'interno del partito socialista contro Bettino Craxi, il quale vinse l'ultimo round facendo pubblicare sul Corriere della Sera la notizia secondo cui Scalfari avrebbe pronunciato le fatidiche parole «lei non sa chi sono io» a un vigile urbano milanese. Trombato alle elezioni tento di rientrare all'Espresso come direttore ma trovo uno sbarramento. Fu allora che concepì la sua grande opera e la sua grande vendetta: Repubblica. Poco prima che il giornale uscisse mi telefono in Calabria, dove lavoravo, per assumermi e il 14 gennaio del 1976 cominciò quell'avventura di alta e divertente pirateria con Giorgio Forattini che disegnava la vignetta. C'erano firme strappate al Giorno come Giorgio Bocca e Natalia Aspesi e un pattuglione di ragazzi di cui molti diventarono famosi. Quel giornale fu così potente che nella stanza di Eugenio vidi nascere e morire parecchi governi, cosa che appagava il suo Ego barbuto ed elegante.

Scalfari era prima di tutto un politico, componeva e scomponeva alleanze, diceva di detestare Berlusconi ma poi si scoprì che andava ad Arcore per suonare assieme al fondatore di Forza Italia e a Fedele Confalonieri al pianoforte la rapsodia in blu di Gershwin. Quando Carlo De Benedetti che era diventato il suo editore lo venne a sapere, decise di farlo fuori e di consegnare l'aulico trono di Eugenio al giovane e più fidato Ezio Mauro. Fu così che Scalfari che era anche un realista chiese e ottenne di poter fingere di essere stato lui a scegliere Mauro e di poter vedere il proprio nome sotto la testata con la definizione di Fondatore.

Eugenio Scalfari è stato un personaggio rinascimentale, dotato di una cultura specialmente economica ma anche letteraria di primissimo ordine, con un senso settario delle amicizie, un umorismo spiccato e, cosa che più di tutte mi colpì quando lo conobbi, innamoratissimo delle sue due figlie che poi

gli dedicarono un bellissimo documentario mandato in onda da Raitre pochi mesi fa. Disse di non temere la morte. È inevitabile, a che vale prendersela. Aveva già accompagnato al cimitero quasi tutti i suoi amici più cari.

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