Un governo monocolore è il sogno di tutti i politici di vertice e l'incubo dei loro alleati. Una dittatura elettiva, un dispotismo illuminato, l'oligarchia di un gruppo che marcia a ranghi compatti verso gli obiettivi sbandierati in campagna elettorale. Luca Zaia ci va molto vicino. Rieletto con il 50 per cento dei voti, il doge veneto ha una maggioranza di 28 seggi su 49 ma con le poltrone conquistate dalla lista a suo nome (13) unite a quelle del Carroccio (10) sfiora l'autosufficienza.
Nel monocolore verde Lega ci sarà una striatura azzurrina. Zaia deve accontentare Forza Italia, che con lo striminzito 6 per cento e 3 consiglieri è decisiva per il nuovo governo veneto. Un occhio di riguardo va riservato all'unico consigliere di Fratelli d'Italia, il vicentino Sergio Berlato, rappresentante della lobby più potente nel Nordest: quella dei cacciatori. Con quasi 10.500 preferenze l'eurodeputato vicentino detiene il record dei voti personali nel nuovo consiglio regionale.
Ciò che più conta per il governatore è un esito elettorale talmente schiacciante da scongiurare ogni contrapposizione. Il doge nato a Conegliano può farsi una squadra su misura, tutta gente devota, rodata, esperta della burocrazia regionale, blindata attorno a un programma vincolante e priva di quei personalismi che rappresentano il pericolo più imprevedibile per chi sta al comando. Subito dopo il voto Zaia ha scelto la prudenza. Meglio godersi il trionfo e sorvolare sugli assessorati senza gettare nomi nella mischia per bruciarli. Qualche complicazione gli viene dalla riforma dello statuto regionale che prescrive equilibrio tra assessori interni ed esterni e impone almeno quattro donne.
E Zaia punterà proprio sugli esterni (massimo cinque) per non sguarnire troppo il consiglio nei momenti chiave. Dovrà lavorare di bilancino, ma sarà un'operazione diplomatica attenta a non scontentare i campanili più che i partiti. Il criterio della fedeltà e della stima personale manderà in archivio il manuale Cencelli.
«Sarà un governo del presidente», ha garantito Zaia. La prova di forza personale, in cui la sua lista ha surclassato il simbolo ufficiale del Carroccio (23,1 per cento contro 17,8), gli consente di non dovere rendere conto a nessuno. Dunque, un governo forte, privo di rivalità, senza «liberi pensatori» (parole di Zaia), lontano dai rischi di logoramento. Cinque anni fa la successione al quindicennio di Giancarlo Galan fu pattuita nei dettagli tra Bossi e Berlusconi mentre compilavano le liste; questa volta invece Zaia ha di fronte uno scenario completamente mutato, quello delle mani libere.
Alle forze minori lascerà le briciole: gli basterà gratificare in qualche modo il record di Berlato e assegnare una poltrona a ciò che resta di Forza Italia. Ma non è detto che Fi e Fdi siano entrambi rappresentati in giunta: uno dei due potrebbe ottenere semplicemente la presidenza del consiglio regionale, magari Massimo Giorgetti, ex An ora forzista, da 20 anni ininterrotti in giunta. Il resto degli assessorati, 9 su 10, sarà nomenclatura leghista di stretta osservanza.
Più lesto di Zaia è stato il suo ex compagno di partito Flavio Tosi, fermatosi al quarto posto con un 12 per cento che non lo toglie di mezzo (come sperava Salvini) ma nemmeno lo consacra a nuovo leader dei moderati.
Tornato a fare il sindaco di Verona a tempo pieno, Tosi ha immediatamente tolto le deleghe (turismo, traffico e commercio) all'assessore comunale Enrico Corsi che si era candidato in regione con la Lega e non è stato eletto. In attesa del monocolore di Venezia, ecco quello di Verona. È l'ultima passione dei leghisti, compresi gli ex.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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