Aveva ragione lei, la danese di ferro che ha in uggia corporazioni, monopoli, posizioni dominanti e tutto ciò che ha l'aria luciferina dei paradisi fiscali. Il mandato decennale di Margrethe Vestager ha una scadenza impressa come quella sugli yogurt, con ancora un paio di mesi da passare alla guida della Commissione europea per la concorrenza. Ma il percorso verso la porta di uscita, oltre la quale la attende un futuro ancora tutto da scrivere, è reso ora più dolce dalla doppia sentenza con cui ieri la Corte di giustizia Ue ha da un lato deciso che l'Irlanda dovrà recuperare da Apple i 13 miliardi di euro di tasse non versate grazie a un'imposizione fiscale quantomeno lasca e, dall'altro, rigettato il ricorso di Google contro la multa di 2,42 miliardi per pratiche anti-concorrenziali imposta dai guardiani di Bruxelles. Per Vestager, che sul suo medagliere vanta anche musate pesanti (caso Tercas), si tratta indubbiamente di una doppia vittoria, ottenuta dopo aver braccato in tutte le sedi, in ogni grado di giudizio e per anni (la causa intentata contro il gigante di Cupertino risale addirittura al 2016) chi riteneva dalla parte del torto marcio. Ora passa all'incasso, ricordando alle big corporation che «nessuno è al di sopra della legge» e rifilando una stoccata a quegli Stati membri (non solo Irlanda, ma anche Benelux, Cipro e Malta) che permettono «offerte speciali per attirare determinate imprese offrendo aliquote basse sulle imposte, mentre in altri Paesi le aziende le pagano tutte».
Niente male come pas d'adieu, considerando che due verdetti a favore dell'alta Corte lussemburghese fanno senz'altro curriculum e l'aiuteranno ad accasarsi come merita. Anche perché lei, che di nemici se ne è fatti nell'ultimo decennio, soffre un po' della sindrome della Sora Camilla: in un decennio ha visto sfumare la possibilità di sostituire Christine Lagarde alla guida del Fondo monetario; poi di prendere il posto di Jean-Claude Juncker a capo della Commissione Ue; infine di andare a dirigere la Banca europea degli investimenti.
Una papessa mancata. Forse per colpa del carattere. Marchiata a fuoco dal soprannome di Lady Tax affibbiatole da Donald Trump, Vestager è flessibile quanto un binario e spigolosa come un angolo del letto a luci spente. Lo ha dimostrato ancora una volta ieri, quando, invece di godersi il successo, ha messo il veleno nella coda del suo intervento. Il bersaglio? Mario Draghi, che lunedì scorso aveva detto che la politica di concorrenza Ue dovrebbe essere più reattiva nel processo decisionale e più «lungimirante», come dimostra la mancata fusione fra Siemens-Alstom, nel focalizzarsi sul mercato unico piuttosto che sui singoli mercati nazionali. «Semplicemente presumere che esista un mercato europeo - la risposta piccata della commissaria alla concorrenza - non si adatta al metodo di lavoro che abbiamo adottato negli ultimi dieci anni e anche prima. Presumere che esista un mercato europeo delle tlc non si accorda con quello che abbiamo visto e fatto». E ancora, con chiaro riferimento alla sottolineatura dell'ex capo della Bce al nanismo europeo nelle tecnologie avanzate: «Finora non abbiamo visto prova che imprese più grandi investano di più», a meno che non vengano spinte dalla concorrenza a farlo.
Insomma, una difesa a tutto campo dell'impalcatura che sostiene l'architettura della concorrenza e punta a ostacolare le fusioni (il merger tra ex Alitalia e Lufthansa docet) e le concentrazioni, come dimostra la netta opposizione verso unioni tra aziende telecom, consentite solo se non mettono a rischio l'offerta di prodotti e servizi a prezzi accessibili per i consumatori. Tutto molto bello.
Ma con un inevitabile effetto collaterale: noi europei siamo piccoli. E non cresceremo. Mentre i prezzi «accessibili» per i consumatori stanno mettendo in ginocchio le nostre telco inibendo investimenti che potrebbero rendere più facile la nostra vita.
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