La settimana scorsa la maga dei sondaggi Alessandra Ghisleri per comprendere le dinamiche delle elezioni europee e verificare il grado di attenzione ha organizzato un focus con dieci giovani in età di voto per scoprirne l'orientamento. A parte uno, gli altri nove gli hanno risposto: «Ma perché si vota?». Insomma, erano all'oscuro della scadenza elettorale. Ebbene, nelle ultime elezioni per il Parlamento di Strasburgo votò circa il 57% degli italiani, domenica prossima c'è il rischio che l'affluenza lambisca il 50% (52% secondo più di un sondaggio) e i più pessimisti non scartano l'idea che addirittura più del 50% degli italiani possa disertare le urne.
Un paradosso, per alcuni versi un assurdo, perché l'Europa e gli equilibri che si determinano nelle sue istituzioni decidono molto della nostra vita. Per alcuni versi più dei Parlamenti nazionali. E purtroppo di questo non c'è consapevolezza nell'opinione pubblica. Ormai nei nuovi equilibri mondiali per contare devi essere o un grande Paese come gli Stati Uniti, la Cina o la Russia o devi far parte di soggetti multinazionali. Ad esempio nella guerra in Ucraina, nella ricerca di una soluzione, i singoli Paesi europei pesano poco, messi insieme, invece, possono avere un ruolo formidabile e la posizione da tenere naturalmente si decide a livello europeo.
Stesso discorso si può fare per l'economia. I tassi d'interesse, quelli che intervengono sui nostri mutui, vengono decisi dalla Banca Centrale Europea. Non parliamo poi delle emergenze: in che condizioni saremmo senza gli euro dei Pnrr? E ancora la green economy, la politica sulla casa, l'agricoltura, financo la giustizia. Di tutto questo, però, purtroppo da noi non c'è contezza. Magari guardiamo alle istituzioni europee per prendercela con qualcuno - spesso a ragione - ma ci dimentichiamo che gli equilibri che decidono quelle politiche sono determinati dalle istituzioni disegnate nelle elezioni che molti, troppi, disertano.
E al punto cui sono giunte le cose non ci sono alternative. Non c'è più l'opzione di uscire dall'Europa, semmai ci sia mai stata. Ancor meno è ipotizzabile uscire dall'euro: i nostri conti, la nostra finanza, la nostra economia rischierebbero il fallimento. Sono ipotesi che non ventilano più neppure i più convinti sovranisti. Tutti comprendono, anche chi non lo dice, che finiremmo nel baratro.
Ecco perché parlare di sovranismo non ha più senso. O meglio ha un suo fondamento nell'accezione di un Paese che vuole contare nella Ue, che vuole difendere in quella sede i suoi interessi, che vuole esercitare una certa influenza nel mondo anche grazie all'Europa. Ecco perché in questo senso parlare di sovranità europea non è un bestemmia, non è un'espressione retorica. Tutt'altro. È l'evoluzione della sovranità nazionale.
Solo che per contare, l'opinione pubblica deve partecipare e, soprattutto, deve sapere a cosa serve il proprio voto. E una campagna elettorale, come quella che si è chiusa ieri, tutta giocata sui temi italiani, sulle dispute di cortile non aiuta. E ancor meno schiarisce le idee trasporre a livello europeo le logiche di schieramento del nostro Paese: gli elettori non comprendono sul piano dei contenuti e dei programmi cosa significhi mantenere l'attuale maggioranza con dentro socialisti, liberali e popolari; o, invece, cosa potrebbe cambiare sul piano dei contenuti se si approdasse anche in Europa ad una maggioranza di centro-destra. Ad esempio, quale delle due formule politiche darebbe una spinta maggiore al processo d'integrazione per evitare che l'Europa continui ad essere un'incompiuta e quale no? Si tratta di un argomento che per lo più non è stato trattato in una campagna elettorale giocata sugli slogan nostrani e con l'occhio puntato al nostro dibattito interno.
E in questo modo purtroppo si è persa un'occasione perché dopo il voto di domenica è nelle cose che da noi cambierà poco mentre in Europa - basta pensare alla guerra in Ucraina, allo scontro tra le democrazie occidentali e l'autocrazia russa - potrebbe cambiare molto.
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