Quel potere del corpo fragile che fa sbocciare la letteratura

La solitudine, il dolore, l'amore: Lisa Ridzén racconta il tramonto della vita

Quel potere del corpo fragile che fa sbocciare la letteratura

Quando le gru volano a sud di Lisa Ridzén (Neri Pozza, pagg. 336, euro 20; in libreria da domani) è molte cose. La prima: il romanzo d'esordio di una autrice svedese giovane e bionda, cresciuta in un villaggio nell'estremo Nord del Paese, e che oggi vive a Östersund (al centro della Svezia). Qui, Ridzén ha ritrovato le carte lasciate dagli assistenti domiciliari che si erano presi cura del nonno Bo, negli ultimi mesi della sua vita. Ecco la seconda cosa: Quando le gru volano a sud è la ricostruzione dell'esistenza del vecchio Bo che, a 89 anni, immaginando di parlare con la moglie Fredrika che si trova da tre anni in una residenza per anziani perché non riconosce più nessuno, nemmeno se stessa, ripercorre il suo e il loro passato insieme e si amareggia sul presente, in parallelo alle brevi note del diario tenuto dalle persone che quotidianamente fanno visita a Bo, gli infermieri, il figlio Hans, la nipote Ellinor. Terza cosa: è una testimonianza della efficienza, per noi italiani quasi fantascientifica, del welfare svedese. Bo non è praticamente mai da solo, o meglio, lo è per alcuni momenti della giornata, ma poi arriva sempre qualcuno a occuparsi di lui: fargli doccia, scaldargli il pasto, dargli le medicine, accompagnarlo in bagno, aiutarlo a cambiarsi i vestiti, alimentare il fuoco nella stufa, dargli una mano con l'adorato cane Sixten. Quarta cosa: è, appunto, un romanzo sulla vecchiaia, su una persona come tanti di noi o come le nostre mamme o i nostri papà o i nostri nonni, insomma sulla realtà di ciò che prima o poi siamo, esseri bisognosi di aiuto per compiere gesti banali, per inezie quotidiane, corpi imperfetti e fragili, esposti a quel destino finale che non è mai mutato, eppure, in certe situazioni della vita, sembra una presenza costante al nostro fianco, che non possiamo più fare finta di ignorare. La cosa più straordinaria (la quinta) è proprio questa: è un libro che (in teoria) chiunque avrebbe potuto scrivere, perché chi non ha avuto un padre o un nonno che si dimentica quello che gli è appena stato detto, che non risponde al telefono, che si appunta su un biglietto chi chiamare, che fa i capricci per non mangiare, e che non riesce più ad aprire un barattolo... Ma Bo ha un motivo preciso per farsi aiutare ad aprirlo, e lo ha confessato solo a Ingrid, la sua infermiera preferita: «Conservare in un barattolo uno scialle della propria moglie affetta da demenza per ricordare il suo odore è patetico, in fin dei conti. Per questo solo Ingrid ne è a conoscenza. Mi vergognerei anche davanti a te. Non eravamo i tipi da dirci a vicenda parole affettuose. Non ne avevamo bisogno».

È la bellezza di questo romanzo: dire, senza retorica, ciò che fa parte del nostro vissuto, delle nostre paure, delle nostre sofferenze. Ridzén ci commuove con l'amore di Bo per Fredrika (al punto di non volerla andare a trovare alla casa di cura: «Incrocio il tuo sguardo e mi rattristo. In quegli occhi non c'è niente di te») e per il cane Sixten, che il figlio vuole portargli via perché, come tutti i figli, ha paura che il padre si faccia male mentre lo porta fuori, come se la solitudine a volte non sia più dolorosa di una frattura. «Non ti sembra strano che ci facciano aggrappare alla vita in questo modo?». Sembra perfino strano, sì, e ci vuole molta delicatezza per far risuonare il vuoto delle stanze una volta piene di una vita famigliare felice, la rabbia verso le dita gonfie che non riescono a tenere un mazzolino di fiori, la delusione per le gambe che inciampano, la malinconia per ciò che non potrà mai più tornare, il senso dell'inadeguatezza letto sui volti altrui, la rassegnazione per le tute identiche e gli ordini degli infermieri. «Lo guardo negli occhi e sento che non voglio più saperne. Voglio alzarmi e andarmene via. Invece resto seduto e annuisco lentamente». Non è che sia tanto diverso da quello che ci tocca fare spesso, nella vita... Non si può non amare Bo che ammette le sue fragilità eppure si arrabbia con sé stesso, che borbotta con il figlio ma vuole dirgli che è fiero di lui, che non vuole lasciare il suo cane perché solo lui sa stropicciargli le orecchie nel modo giusto, che dentro ribolle e ribalta il mondo, come fin da quando era ragazzino e lavorava alla segheria, ma non si è mai sognato di appiccicarsi slogan o identità farlocche. Un ribelle con molte cause, non ultima un corpo che non gli obbedisce più.

E in libreria, in questo momento, non c'è solo il romanzo di Ridzén a ricordarci che la perfezione non è dei nostri corpi. Ci sono anche il norvegese Jan Grue con La mia vita come la vostra (Iperborea, pagg. 230, euro 18) e la californiana Maggie Nelson con Pathemata. O, la storia della mia bocca (nottetempo, pagg. 90, euro 14). Quello di Grue è il racconto, in forma di memoir, di che cosa significhi vivere per decenni con un corpo che i medici considerano difettoso e con brevi prospettive di futuro: all'età di tre anni, a Grue è diagnosticata una patologia neuromuscolare che non gli consente di muoversi come gli altri bambini. Non può correre, non può scendere le scale e anche solo camminare gli costa grande fatica. Per decenni, Grue si è trovato «all'incrocio di questi due sguardi, quello controllante dell'istituzione e quello penetrante della clinica». E allora «c'è tanto da stupirsi se abbiamo presto cominciato a disprezzare il nostro corpo con la sua fragilità e vulnerabilità?». Eppure Grue, come Bo, si ribella a quello sguardo. La realtà è che, nonostante i medici con le loro cartelle cliniche abbiano cercato di scrivere la sua storia e con la loro diagnosi di imprigionare la sua identità, lui ha vissuto: ha viaggiato, ha studiato in California, si è sposato, è diventato padre... Di qui il suo memoir: «Ho cominciato a scrivere perché avevo bisogno di un linguaggio diverso da quello che mi era stato offerto all'inizio».

La ricerca di una strada propria, personale, attraverso la parola è anche quella di Maggie Nelson, che a migliaia di faldoni e di fogli annotati e archiviati sul suo dolore alla mandibola, che l'ha tormentata per dieci anni, oppone il viaggio onirico in una realtà altra, che le consente la letteratura.

Come quando Nicholas Hughes, figlio di Sylvia Plath, muore suicida e ritornano le parole della poesia che la madre scrisse per quel bimbo neonato. «Il sangue fiorisce puro// in te, rubino./ Il dolore/ a cui ti svegli non ti appartiene».

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