Una bandiera nera sventola sul Castello di Praga. È morto Vaclav Havel, l’eroe della Rivoluzione di Velluto, l’uomo che nel 1989 dimostrò che l’arma vincente contro il totalitarismo non è la violenza, ma la forza della verità. Gli annunciatori del telegiornale si sono vestiti a lutto per dare la notizia e alle sei della sera, nel gelo del quasi Natale mitteleuropeo, le campane di tutta la Cechia hanno suonato per ricordare colui che restituì la dignità al suo Paese dopo quarant’anni di asservimento, completando con la caduta del regime comunista l’opera di riunificazione dell’Europa sfregiata dalla Cortina di ferro. Negli stessi momenti a Praga una folla commossa andava riempiendo piazza Venceslao («Vaclav» in ceco), ascoltando gli studenti che leggevano in pubblico brani dei suoi scritti. E in serata una folla di giovani si è diretta verso la Moldava per accendere sull’isola di Kampa un grande falò commemorativo.
Havel si è spento ieri mattina, all’età di 75 anni, nella sua casa di villeggiatura in un paesello del nord della Boemia che si chiama, curiosamente, Hradecek (in ceco «castelletto»). Soffriva da trent’anni di gravi problemi respiratori, provocatigli dall’esser stato un fumatore accanitissimo e dalle pessime condizioni di detenzione nelle carceri comuniste in cui fu rinchiuso dal 1977 al 1981 per aver fondato il movimento di opposizione (ovviamente illegale) «Charta ’77». Anche a Hradecek, quasi in punta di piedi, tantissimi cechi sono andati a deporre fiori, ad accendere candele.
In queste ore tanta gente comune non solo nella sua patria, ma in tutti i Paesi del defunto socialismo reale ricorda Havel con gratitudine. Ma a lutto è l’intero mondo politico e culturale del Vecchio continente, che gli deve tantissimo: dalla Germania all’Inghilterra, dalla Francia alla Polonia si ricorda l’uomo che come pochi altri seppe tener alta la fiaccola della libertà. Drammaturgo di mestiere, Havel era diventato politico controvoglia, per spirito di servizio. Sopportata per anni sulla propria pelle la violenza del regime che opprimeva il suo Paese, quando questo cadde soprattutto per la forza del suo esempio non poté sottrarsi all’onda di popolo che lo volle primo presidente della Cecoslovacchia postcomunista. E come avrebbe potuto? Il 21 novembre 1989, al culmine di una stagione di sfida civile portata nelle strade di Praga senza un singolo atto di violenza, duecentomila persone si erano accalcate in piazza Venceslao per ascoltarlo. E lui, uomo di teatro fino al midollo, aveva portato la folla all’entusiasmo prima annunciando che il governo comunista (che lui ridicolizzava chiamandolo Absurdistan) aveva dovuto concedere un’inchiesta sulle violenze della polizia contro i manifestanti, e poi elencando con tono ironico i nomi dei gerarchi rossi ancora assisi sui loro traballanti seggi: e a ogni nome, ebbri di gioia, i duecentomila rispondevano con una sola voce «In fabbrica!». Il regime era finito, ora toccava a lui.
Havel divenne presidente il 29 dicembre 1989, chiodo finale nella bara del socialismo reale: quattro giorni prima Nicolae Ceausescu era stato fucilato a Bucarest, il mese prima era crollato il Muro di Berlino. Indossati i panni dello statista, batté con insistenza i tasti della rinascita morale del suo popolo e in generale di quelli europei, vero filo conduttore della sua azione politica anche a livello sovrannazionale. Richiamò i suoi compatrioti a una «responsabilità superiore», ricordò che «la verità e l’amore devono prevalere sulle menzogne e sull’odio», arrivò perfino a chiedere alla polizia ceca, notoriamente assai brusca, di «diventare finalmente gentile». Sbagliava chi ravvisava in queste parole il riflesso di un animo troppo fine per reggere le sorti di un Paese: Havel era un uomo determinatissimo, e il suo rifiuto della violenza non era sinonimo di debolezza, bensì - come ebbe a scrivere - consapevolezza che «le vere forze del cambiamento sono quelle della verità e dello spirito libero, della coscienza e della responsabilità, senza mitragliatrici, brama di potere e broglio politico».
Colto anticonformista che ricevette al Castello i Rolling Stones e Frank Zappa, Havel ebbe enorme popolarità nei tre anni in cui fu presidente cecoslovacco e - dopo aver gestito con dispiacere ma levità di tocco la separazione tra cechi e slovacchi - nel successivo decennio da capo di Stato ceco, durante il quale portò
coerentemente il suo Paese nell’Ue e nella Nato. Lasciata la presidenza tornò al teatro e scrisse «Gli addii»: il protagonista era un politico che fatica a rinunciare al potere, ma è difficile credere che parlasse di se stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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