«Il nemico può arrivare da tutte le parti». È il 5 novembre 1955 quando Isaac Bashevis Singer racconta il «viaggio verso un kibbutz», lungo un tragitto stretto tra il mare e il confine: «Il tassista indica un villaggetto e dice: Quello appartiene già agli arabi». «Il confine è sempre vicino» osserva in seguito. E «dietro a quelle colline - annota - c'è già il nemico».
Lo chiama così, Singer. E, mentre la gran parte del conflitto arabo-israeliano è ancora di là da venire - a partire dalla Guerra dei sei giorni, fino al 7 ottobre - descrive l'accerchiamento che ancora oggi è vissuto dallo Stato ebraico, attaccato da sette fronti, dal Libano all'Iraq. Nel '55 Israele è neonato, ha combattuto la sua guerra (difensiva) d'indipendenza e Singer già scrive: «Il nemico può arrivare da tutte le parti da nord, da sud, da est». «Se a New York foste vicini al nemico quanto lo siamo qui, tremereste, andreste in ansia e tentereste di fuggire» avverte. E varrebbe anche per le pigre opinioni pubbliche odierne. Eppure «benché io non sia un eroe - ammette salendo sul monte Sion - non ho paura. Direi che Israele infonde un coraggio contagioso».
Arrivava dagli spazi sterminati degli Usa il più grande scrittore yiddish del Novecento, l'unico Nobel. E la gita al kibbutz era una tappa della prima visita alla scoperta di quello che anche lui, come pure Indro Montanelli 5 anni dopo farà in un altro grande reportage, definisce il «miracolo» di Israele, un'impresa di cui comunque non nasconde tensioni e contraddizioni.
Nato in una famiglia chassidica insediata in Polonia - l'universo è quello degli shtetl, villaggi ebraici dell'Est flagellati dai pogrom antisemiti - Singer lasciò avventurosamente il Vecchio continente per stabilirsi in America, dove continuò a scrivere nella lingua degli ebrei d'Europa, per poi tradursi in inglese. Una produzione poliedrica la sua, anche giornalistica, spesso destinata alla rivista Forverts. Con una serie di articoli, destinati appunto al giornale degli ebrei newyorkesi, raccontò il suo primo Viaggio in Israele, che tradotto direttamente dall'yiddish da Enrico Benella - viene ora pubblicato da Giuntina (pagg. 192, euro 18). Una scoperta narrata con disincanto, attenzione a dettagli e verità storiche oggi sepolte dalla coltre della propaganda («Il muftì ha ordinato agli arabi di fuggire e i rifugiati ebrei hanno occupato le loro case») e non senza un velo di velata autoironia: «Herzl - dice - non ha avuto la fortuna di vedere realizzato il suo sogno. Invece io, che non ho alzato un dito per costruire questo Stato, ci entro come un generoso parente acquisito».
Disincanto sì, ma accompagnato da un'idea di intima
familiarità con Israele, segno dell'ineluttabile richiamo identitario verso una storia che non ha ambizioni egemoniche, ma in qualche modo impone agli ebrei, pur secolarizzati, la responsabilità morale di essere salvata.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.