Quando il film The Doors di Oliver Stone venne proiettato nei cinematografi americani con grande strepito, i meno entusiasti tra tutti gli spettatori, malgrado l'ammirazione sincera per un Val Kilmer strepitoso e somigliante, furono i tre Doors superstiti e Frank Lisciandro, l'amico dei tempi della Scuola di Cinema a UCLA, che del tentativo di riabilitare Jim Morrison e di restituire dignità alla sua immagine vilipesa e caricaturale, ha fatto una crociata.
Frank Lisciandro, autore dell'introduzione del libro Jim Morrison (Rizzoli), che raccoglie la sua opera omnia, sarà ospite del festival Dal Mississippi al Po, a Parma, dal 13 al 15 giugno, con una mostra fotografica inedita.
In che modo lei e Jim vi incontraste?
«A UCLA, Los Angeles, nel 1963, pochi mesi dopo l'assassinio di John Kennedy. Frequentavamo molte delle stesse lezioni di un corso di produzione cinematografica e, dunque, ci ritrovavamo spesso insieme. Non posso dire che fossimo ancora amici, ma avevamo parecchie amicizie in comune. Jim mi parve tranquillo, addirittura timido. Non mostrò subito la sua intelligenza e personalità. In quel corso, di studenti carismatici ce n'erano tanti e spiccare non era semplice. Mentre noi eravamo al primo anno, Francis Ford Coppola stava completando la sua tesi e c'era pure Ray Manzarek, il futuro tastierista dei Doors. Solo in seguito, conoscendolo meglio nel corso delle riprese del film Feast of Friends, mi resi conto della sua straordinaria profondità intellettuale.
Lei ha cercato di restituire a Jim Morrison un'immagine che, a suo dire, il libro Nessuno uscirà vivo di qui e il film The Doors gli avevano strappato. Perché?
«Con il libro Nessuno uscirà vivo di qui, Jerry Hopkins e Daniel Sugerman hanno tentato di rappresentare Jim come un rocker sfrenato e fuori di testa. Molte delle cose in esso descritte sono completamente false e altre si basano su eventi che forse sono accaduti ma che sono stati rappresentati per far fare a Jim la figura dello scemo. È stato scritto unicamente per attrarre gente verso la musica dei Doors e vendere dischi. Quanto a Oliver Stone, regista del film, ha tratto le scene più platealmente false da quel libro e vi ha aggiunto la sua stupidità immaginaria per far sì che il suo pubblico detestasse Jim, ritratto come un clown pazzo, dall'indole violenta e folle.
Quale fu la reazione sua e degli altri tre Doors quando vedeste film?
«Quando Oliver Stone si rifiutò di mostrarmi una copia della sceneggiatura, io mi rifiutati di collaborare alla produzione. Gli amici di Jim furono inorriditi e stizziti dal ritratto di Jim che ne esce. Non ho cose positive da dire sulla parte dell'entourage dei Doors che vi svolse un ruolo e sulla sua slealtà. Basta dare un'occhiata ai titoli finali per capire a chi mi riferisco».
Nel suo libro Jim Morrison. Una conversazione tra amici, chiede a diverse persone di rispondere alle stesse domande. C'è qualcosa di comune che emerge?
«Nessuno degli amici, compagni di università o fidanzate da me intervistati aveva mai visto il lato violento di Jim Morrison rappresentato da quel libro o da quel film. Per tutti, era una persona calma, garbata e premurosa. Era pure un alcolista e, quand'era sbronzo, talvolta faceva cose sciocche. Mai violente, però. E tutti concordano sul fatto che fosse alla ricerca di una sua libertà di pensiero e di espressione artistica. Della libertà di decidere per sé».
Come finì per essere il primo editore delle poesie di Jim?
«Jim si autoprodusse due libri negli ultimi anni della sua breve vita e alcune sue poesie finirono su riviste e testate letterarie. Ancora non mi era passato per la testa di raccogliere i suoi scritti e di pubblicarli. Quando Jim morì, i suoi oggetti personali rimasero nelle mani della sua compagna storica, Pamela Courson, che morì tre anni dopo. I genitori della ragazza ereditarono tutto. A una dozzina di anni di distanza dalla morte di Jim, il padre di Pamela mi chiese di aiutarlo a raccogliere i taccuini di Jim in un libro. Leggendo quei taccuini, capii la bellezza dei suoi scritti. Ma, in seguito, capii che sarebbe stata necessaria una raccolta completa delle sue opere. Impiegai anni per convincere le parti. Nel 2001, al mio ritorno negli USA dopo aver vissuto in Francia e in Italia per alcuni anni, parlai con qualche editore e capii che una raccolta di tutti gli scritti di Jim avrebbe visto la luce soltanto se l'avessi creata io stesso. Le due raccolte di poesie di Jim che avevo curato nel 1988 e nel 1989 erano state un successo, ma io sapevo che restavano tanti suoi scritti inediti (negli oltre 27 taccuini da me letti) che sarebbe stato giusto affiancare alle poesie già pubblicate in un unico grande libro. È stata una grande soddisfazione vedere il frutto di quel lavoro. Perché ci è voluto tanto? Forse perché, come diceva spesso Jim, con un sorrisino, Il denaro batte sempre l'anima».
Cos'è che Jim trovava di tanto affascinante nel blues?
«Al tempo, eravamo tutti appassionati di blues, anche se erano state band inglesi a esaltare per prime musicisti come Lightnin' Hopkins e B.B. King. A Jim, forse, piacevano la semplicità della musica e le storie di vita tosta che le canzoni narravano. Forse, lo considerava una parte essenziale della storia e della cultura americane».
L'ultima volta in cui gli parlò, che sensazione le trasmise?
«Io e mia moglie ricevemmo una lettera scritta da Jim subito dopo essersi trasferito a Parigi. Gli avevamo chiesto se lui e Pam avevano voglia di unirsi a noi nel giro in macchina in vari paesi europei che intendevamo fare. Mi scrisse per dirmi cosa stava facendo e per invitarci a casa loro a Parigi. Sembrava di buon umore, per quanto solo. Concluse con parole che mi fecero pensare che sentisse la mancanza dei suoi amici: Salutatemi tutti e cercate di venire qui. Stavamo per partire, quando una telefonata da Parigi ci comunicò che Jim era morto. Andammo a Parigi, ma non vedemmo mai più il nostro amico».
C'erano altri artisti degli anni Sessanta che Jim apprezzava?
«Gli piacevano i Beach Boys e rispettava Bob Dylan. Gli piaceva Elvis e, mentre era sotto processo a Miami, andò a vedere un suo concerto.
Amava il jazz, soprattutto Miles Davis. Gli piaceva lo stile vocale di Frank Sinatra. E, come a tutti, gli piacevano i Canned Heat. Ovviamente adorava il vecchio blues: Howlin' Wolf, Albert King, John Lee Hooker, Muddy Waters».
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