La prosa dei vinti, Enrico de Boccard e la memoria dell'armistizio inaccettabile

Tornano i racconti del barone della Rsi che distrusse il cippo di Cassibile

La prosa dei vinti, Enrico de Boccard e la memoria dell'armistizio inaccettabile

Il vero 8 settembre 1943 era già avvenuto, in realtà, cinque giorni prima. Fu infatti il 3 settembre che, sotto una tenda presso l'uliveto di San Michele di Cassibile, in provincia di Siracusa, venne firmata la resa incondizionata delle forze del Regio Esercito agli Alleati. Tra le clausole di quello che sarebbe passato alla Storia come «l'armistizio breve», c'era l'obbligo di segretezza riguardo la sua divulgazione, motivo per cui l'annuncio agli italiani venne dato soltanto dopo che il generale Eisenhower lo ebbe letto in inglese dai microfoni di Radio Algeri, alle 18,30 dell'8 settembre, gettando così immediatamente nel panico le forze politiche italiane e lasciando allo sbando quelle militari.

A ricordo dell'evento, che segnò una drammatica svolta nella Seconda guerra mondiale, lo Stato Maggiore americano donò alla baronessa Aline Grande, proprietaria dell'uliveto, una lapide con incisa, accanto alla data fatidica, la scritta «Armistice signed here». Fu proprio in questa pietra, simile in tutto e per tutto a un cippo funerario, come si può vedere nella foto riportata anche da Wikipedia, che, nell'agosto 1949, si imbatté il barone Enrico de Boccard, lontano parente dei proprietari della tenuta agricola, il quale subito cominciò a pensare di rubare e distruggere quella pietra, rappresentante, nelle sue parole «la tomba delle speranze, dei sacrifici, della grandezza dell'Italia». Il piano, però, venne portato a termine solo molti anni dopo, nel giugno 1955, seguito dall'autodenuncia firmata sulle colonne del settimanale satirico Il merlo giallo con un articolo intitolato «Confessioni: perché ho rubato il cippo di Cassibile», pubblicato il 4 ottobre dello stesso anno.

Questa curiosa vicenda che ci riporta a fatti lontani nel tempo, ma ancora vicini alla sensibilità di molti italiani, sono accuratamente ricostruiti da Rosanna Romanisio Amerio nell'appendice della nuova, ricca edizione del libro di Enrico de Boccard Le donne non ci vogliono più bene, (Solfanelli, pagg. 320, euro 24) curata da Gianfranco de Turris, responsabile anche del titolo cambiato, che nell'edizione originale del 1950 (l'Arnia) era Donne e mitra. Il libro offre l'opportunità di leggere la versione della guerra civile che insanguinò l'Italia tra il 1943 e il 1945 scritta dalla parte dei vinti, e soprattutto di ricordare un personaggio straordinario come il barone Enrico de Boccard (1921-1988), ingiustamente dimenticato. Sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana durante la Rsi, a guerra finita Barone de Boccard fu, oltre che apprezzato scrittore, eccellente giornalista, redattore di varie testate, tra cui il mensile «per soli uomini» Playmen, attore, imprenditore tra i primi a intuire le potenzialità delle televisioni private, ma soprattutto fu un inguaribile ribelle romantico, o un «aristocratico avventuriero, goliardo e viveur», nelle parole di De Turris, che lo avrebbe voluto testimone di nozze, se non fosse stato impedito dall'improvvisa morte della madre.

Il romanzo e i cinque racconti pubblicati in Le donne non ci vogliono più bene non sono però un semplice omaggio all'autore, ma rappresentano una eccellente testimonianza, ancora valida dal punto di vista letterario nonostante il tempo trascorso, di quella sanguinosa cesura nella storia italiana. Nelle pagine, scritte poco dopo i tragici eventi descritti, troviamo infatti i frammenti di un'atmosfera irripetibile e oggi difficilmente immaginabile.

Come scrive de Boccard nell'«Avvertimento al

lettore», «questo non è un libro politico e neppure un libro di memorie: è una testimonianza, che vorrebbe tirare le somme di un'esperienza». Forse oggi, dopo tre quarti di secolo, è giunto finalmente il momento di farlo.

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