Quell’utopia che regna in periferia

Si dice che Milano oggi non sia più la città «piatta» di tempo fa, che cantieri e progetti importanti presto la rivitalizzeranno e ne costruiranno una immagine nuova. È curioso che quando vai a guardar bene tutte le iniziative di grandi opere in cantiere, e non c'è bisogno di enumerarle di nuovo, ti accorgi che studenti, anziani autosufficienti, famiglie monoreddito e immigrati con una occupazione, vale a dire le fasce più deboli ma numerose della società, di queste grandi opere a parere non solo mio ne godranno ben poco. Restano confinati nelle notorie periferie «degradate» che nessuno ama e, a turno, tutti e non si capisce in quale modo, vorrebbero diventassero tanti centri di interesse, ricchi di locali accattivanti, di negozi firmati dagli stilisti, immersi nel verde, isole di tranquillità sociale ed estremamente sicuri. Una utopia che ancora una volta mette in risalto la vecchia carenza di concepire una intera città.

Ed il bello è che questa «rivisitazione» delle zone periferiche, non è un impegno inferiore a quello che occorre per i grandi interventi tanto sbandierati, perché costruire case in maniera innovativa, corretta, che durino nel tempo, significa anche affiancar loro servizi, centri sociali efficienti, rivisitazione del paesaggio dell'insegnamento e della salute, e quindi impiegare grandi quantità di denaro, denaro che il capitale privato difficilmente vi profonderà. «Forse finanziarie e banche - fa notare la mia giovane discepola - cui spetterebbe il compito di muovere un'operazione di grande portata, lunga ma di vero rinnovamento, sono occupate in altre priorità».

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