Sono cresciuto anch’io nel quartiere Isola Garibaldi di Milano come Giovanni Borghi che era lo zio, non ancora famoso, del mio amico Fedele Confalonieri.
Ho un ricordo nitido di dov’era la sua bottega di piazza Minniti, una bottega d’elettricista, nella quale il sciour Guido, milanese tutto d’un pezzo, di stampo antico, insegnava ai suoi tre figli maschi, Gaetano, Giovanni e Giuseppe, gli stessi comandamenti che mio padre ha trasmesso a me: il senso del dovere, la capacità di sacrificio, l’amore per il lavoro,
il rispetto della parola data.
Non posso giurarlo, ma credo di aver incontrato la prima volta il Cavalier Borghi nell’oratorio del patronato di Sant’Antonio, un luogo di ritrovo obbligato per i ragazzi dell’Isola, un centro di formazione e di svago nella Milano semidistrutta dai bombardamenti.
Io e Fedele eravamo adolescenti: frequentavamo il ginnasio, avevamo le stesse passioni: lo studio, la musica, il Milan.
Lui, il futuro re dei frigoriferi, era stato un giovanotto pieno di vita che per arrotondare la paga di operaio, anzi di garzone, andava a suonare il pianoforte nei cinematografi accompagnando con i motivi dell’epoca la proiezione di film rigorosamente muti e in bianco e nero.
Suonava il pianoforte anche sua mamma Maria e lo suonava la sorella Luigia, madre di Fedele, mentre Confalonieri senior, pensate un po’, si chiamava Ernani come il personaggio dell’opera di Verdi.
La musica a quei tempi non era uno status symbol, un’esclusiva dei discendenti di famiglie ricche. Tutt’altro. Avviare un figlio alla pratica di uno strumento, da suonare magari nella banda del paese, rientrava nei doveri spontanei di qualsiasi genitore anche e, oserei dire, soprattutto nei ceti sociali meno abbienti.
Quanto c’entri, e se c’entri, l’inclinazione per la musica con il successo nel campo imprenditoriale è arduo stabilire.
Dovrei dire che c’entra in qualche modo se Giovanni Borghi è diventato l’industriale simbolo del miracolo economico italiano e se Fedele ed io, dopo aver suonato sulle navi da crociera, abbiamo fatto la nostra parte come imprenditori.
Ma forse c’entra anche l’aria dell’Isola capace di stimolare in chi l’ha respirata da giovane l’estro, la fantasia, l’intraprendenza, la voglia di riuscire, l’arte di inventarsi qualcosa di nuovo.
Già, innovare: Giovanni Borghi lo ha fatto mirabilmente fiutando che, dopo le ristrettezze della guerra, i consumi sarebbero esplosi e gli italiani, imitando in ciò gli americani, avrebbero imbottito di comodità le loro case: il frigorifero, la lavatrice, la lavastoviglie.
Ci voleva un marchio facile: cinque lettere, Ignis, fuoco, parola che, paradossalmente, ha evocato per cinquant’anni immagini di piatti freddi e di bibite ghiacciate.
Ho rivisto Giovanni Borghi nella sua Comerio quando le sue industrie di elettrodomestici erano all’apice. Geniale, vulcanico, alla mano, aveva un chiodo fisso: produrre elettrodomestici di qualità a costi sempre più contenuti. E una convinzione solida: le spese della pubblicità rientrano sempre. Soprattutto se, come nel caso della Ignis, abbinate allo sport, servono a mantenere squadre che giocano, divertono, vincono.
L’idea che il giornalista Gianni Spartà ha avuto di raccontare in un libro la straordinaria avventura di Giovanni Borghi è sicuramente un’ottima idea; un contributo doveroso alla conoscenza di un personaggio di grande valore umano e professionale.
Abbiamo bisogno di esempi, soprattutto nei momenti di difficoltà. Abbiamo bisogno di quella fiducia nell’Italia, di quell’ottimismo e di quello spirito di missione che al re dei frigoriferi non mancarono mai.
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