Ora che la nostra gioventù è diventata sabbia non sembriamo più ricordarci che eravamo noi quelli della rabbia. Il nuovo romanzo di Raul Montanari, Il disegno magico (Baldini + Castoldi, pagg. 288, euro 19) racconta tutto questo attraverso una trama ambientata tra il Piave e Milano: due luoghi dell'anima che già evocano delle storie. Da una parte il fiume mormora fantasmi di un passato di battaglie, perse nella memoria, ma che vivono nel suo scorrere impetuoso e al contempo placido riconciliandoci con un mondo che è sempre ancora in guerra, anche se preferiamo dimenticarlo; dall'altra una Milano che dalle barricate è passata alle barrique: se ci fossero oggi le Cinque Giornate, come intuì Luciano Bianciardi, poseremmo le armi alla Quarta perché c'è Milan-Inter.
È questa l'ambientazione: anche se i veri luoghi sono quelli dell'animo umano che Montanari - al suo trentesimo libro - sa indagare come pochi. Attraverso i protagonisti trentenni Francesca e Angelo, da poco vicini di casa, Montanari ci racconta gli abissi dell'animo umano, ma anche le vette che potrebbe raggiungere. Una storia di morte, violenza e vendetta, ma solo in apparenza: perché in realtà la Milano raccontata nel libro è vista con gli occhi della memoria.
È un romanzo che andrebbe adottato per lo stile nelle scuole di scrittura, perché Montanari è tra i pochi autori italiani capace di costruire dialoghi che siano credibili. Per capirci: non si saltano, come si fa per la maggior parte dei romanzi contemporanei, anzi spesso sono parte rilevante della struttura narrativa. Ai dialoghi ispirati alle serie televisive Montanari predilige la cadenza delle opere di Sofocle e Seneca e questa volta più marcato c'è anche un tocco delle commedie di Plauto. Perché Raul Montanari, insieme a Tiziano Scarpa, è lo scrittore forse più colto in Italia.
Non lo fa pesare, non ha vanterie da studioso delle opere complete di questo e quell'autore, perché sa che lo chiuderebbero in un recinto mentre è un rigoroso lupo selvaggio (come dall'etimo germanico del nome Raul) ed è stato capace di comprendere come le ferite dell'anima, sua e nostra di lettori, possono fiorire anche nelle situazioni più disperate: ogni suo romanzo, sin dagli esordi, è un petalo di rosa gettato nell'apparente vuoto dei Grand Canyon. Sta a noi sentirne l'eco, e se lo cogliamo un suo libro ci può davvero, se non cambiare, di certo farci pensare a una realtà che, oggi, abbiamo preferito rimuovere con le illusioni.
I protagonisti sono feriti dalla vita, malgrado la giovane età, più che dei sopravvissuti sono dei supervissuti. Perché oggi è tutto più veloce, anche le nostre coscienze ormai al neon: dal buio alla luce in pochi secondi, una distonia sociale che ci imprigiona cullandoci. Perché vivere è subire torti: ce li infliggono i nostri genitori - spesso con le migliori intenzioni - e continuiamo a subirli per tutta la vita. Ed è questo, la colpa dei padri, un tema ricorrente, sottotraccia, nei suoi romanzi.
Montanari molto spesso, come in questo caso, ricorda l'infanzia e l'adolescenza perché «il passato è quella parte del presente che ha meritato di rimanere dentro di noi» ricordandoci che «ogni creatura vivente ha un'essenza poetica, una fine tragica e un'esistenza comica».
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