«Roméo et Juliette» convince tutti

È sempre di moda, per i detrattori di Charles Gounod, ridurre il suo dramma lirico Roméo et Juliette (1867) a quattro bei duetti senza nient’altro intorno. L’edizione presentata al Teatro alla Scala - dove mancava dal 1934 - ha invece ribadito che «intorno» c’è la mano di un compositore di alto rango. Morto Berlioz, in Francia Gounod è «il più grande musicista che ci resta». Il giudizio è di un critico attendibile, il poeta Théodore de Banville. Sottoscriviamo. Il direttore d’orchestra canadese, Yannick Nézet-Séguin, che debuttava alla Scala, ha ben lavorato nell’amalgamare le vaste oasi liriche a quei deliziosi omaggi a Mozart che rivelano nel Conte Capuleti una galanteria d’antico lignaggio. L’eleganza «libertina» e la venerazione di Gounod per l’autore del Don Giovanni sono gli unici nessi che potrebbero spiegare perché il regista Bartlett Sher abbia spostato l’azione nel Settecento. Meno comprensibile lo scorrazzare di una ciurmaglia di pendagli da forca che pareva fuggita dalla Tortuga piuttosto che dalle osterie di Verona. Comunque, tanto per gradire, nel fugato del preludio un manipolo di loschi figuri stuprava una fantesca: caso mai qualcuno avesse pensato trattarsi di uno Shakespeare da confetteria. Il quadro fisso, opera di Michael Yeargan riduceva l’affresco ad una fredda veduta. E Gounod di Arti Figurative ne capiva. Educato da Ingres per lui modello in quel combinato disposto di primitivismo italiano filtrato dalla sensibilità romantica. Vittorio Grigolo e Nino Machaidze erano due protagonisti vocali di bella freschezza. Il pubblico ha premiato con un successo personale la non comune generosità di Grigolo (ma la prodigalità potrebbe diventare pericoloso scialo), accomunando nel vibrante consenso anche la meno comunicativa Machaidze. Eccellenti nei ruoli di contorno sia il dovizioso basso Alexander Vinogradov (Frate Lorenzo) che il pungente tenore Juan Francisco Gatell (Tebaldo). A posto gli altri.

Il Coro ha dato il suo noto contributo: intonato nel difficile prologo «a cappella» e potente nell’invocazione finale del terzo atto (O jour de deuil - la pagina più bella dell’opera). Per Nézet-Séguin un esordio più che promettente. Auspichiamo un seguito scaligero tempestivo e non avventuroso.

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