RomaSolo un padre. Un altro, ma quanto diverso dal dermatologo ricco, borghese, con attico, appena incarnato da Luca Argentero. Paradossalmente somiglia più al Silvio Orlando del Papà di Giovanna. Il padre di Come Dio comanda, nelle sale dal 12 dicembre, ha la faccia antica, proletaria, di Filippo Timi. Un uomo razzista e disoccupato che sopravvive nel Nordest, alle pendici delle montagne, insieme al figlio adolescente, accampati dentro una casa gelida e inospitale. Tatuaggi da nazista, giacca di pelle, il pugno micidiale, la 357 Magnum in tasca, Rino Zena emerge dall'omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti che Gabriele Salvatores ha adattato per lo schermo. Un padre «sulla cattiva strada» per dirla con De André, pronto a esplodere. Odia tutti gli immigrati e ciancia di Patria per costruirsi un cencio di identità. Eppure Salvatores, uomo di sinistra con trascorsi extraparlamentari, sensibile alle regole del politicamente corretto, lo descrive con una certa «pietas». Premette: «Il razzismo nasce dalla paura di perdere qualcosa nell'incontro con qualcun altro». E tuttavia... «Questo padre insegna l'odio con tanto amore. Ho voluto, dovuto, condividere l'amore tra Rino e suo figlio, un amore assoluto, totale, sbagliato, morboso. Che però invidio, non sapendo se sarei capace di provarlo. Meglio un padre così, anche se urla e fa cose spaventose, che certi genitori illuminati e democratici, spesso assenti, incapaci di prendere il figlio in braccio. Un ragazzo, per crescere, ha bisogno di qualcuno che gli dica: questo è nero, questo è bianco. Per poi rompere la crosta, formarsi un'opinione, infrangere quello che gli psicologi di Palo Alto, studiando il fenomeno, hanno chiamato il doppio legame».
Assente dagli schermi dai tempi di Quo vadis, baby?, 2004, il regista rifà coppia con lo scrittore di Io non ho paura. Un'altra fosca storia di padri e ragazzini, ma immersa in un sud abbagliante, estivo; proprio l'opposto di questo Friuli Venezia Giulia, livido e piovoso, nel quale, con l'aiuto di altri 150mila litri d'acqua reperiti dal produttore Maurizio Totti, Salvatores ha traghettato i suoi attori. Che sono, oltre a Timi, l'esordiente Alvaro Caleca (il figlio Cristiano), Elio Germano (lo svalvolato Quattro Formaggi), Angelica Lea (Fabiana) e Fabio De Luigi (l'assistente sociale).
È un Nordest trasformato quasi in paesaggio dell'anima quello che si vede in Come Dio comanda. Fatto, certo, di capannoni industriali, ciminiere fumanti, casette a schiera, centri commerciali, immense segherie, cave di pietra; ma circondato da montagne, boschi, fiumi. «Una natura che trema e freme, pronta a riprendersi quello che hai strappato o che hai cercato di governare, a rompere gli argini e travolgerti», spiega Salvatores. Il suo pensiero corre a Shakespeare. «Anche qui c'è un prima, una notte tempestosa e un dopo. Anche qui ci sono tre personaggi: un padre-padrone che somiglia a un re, un figlio che sembra un principe adolescente, un fool matto e buffone». A scatenare gli elementi della tragedia sarà la tragica morte nel bosco di una bella ragazza del posto, Fabiana, che ascolta She's the one di Robbie Williams sull'I-Pod (il cantante ha voluto leggere il copione prima di dare l'ok) e a scuola corteggia un po' l'inibito Cristiano. «La vedo come una specie di Cappuccetto Rosso, l'ho anche vestita così, perché evocasse un'atmosfera quasi da favola», teorizza il regista. «Volevo allontanarmi dalla cronaca, che sta invadendo le nostre vite. I romanzi di Ammaniti vengono visti come racconti dell'Italia contemporanea, sia pure in tinte horror o addirittura splatter. Ma io vi leggo dentro una dimensione archetipa, ancestrale, che supera e trascende il momento della quotidianità».
Resta da chiedersi se, con l'aria depressa che tira in giro, l'uscita natalizia sia la più indicata per una storia così cupa. Risponde Caterina D'Amico di Raicinema: «Perché no? Magari non tutti a Natale vogliono vedere solo il film di Natale». Si accettano scommesse.
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