Fonti di ispirazione di Dimitris Lyacos: «La Bibbia certo, e l'Antico testamento in particolare per il primo libro, i presocratici, ma ovviamente la filosofia non solo greca, la tragedia greca, Dante». E poi: antropologia, teologia, fisica, poesia, logica... E ancora: «Parlando della mia trilogia, qualche volta ho notato che Z213: Exit è il mio libro ebraico, Con la gente dal ponte quello cristiano e La prima morte il libro greco. Uno potrebbe pensare a Filottete». Del resto, non è strana questa influenza della cultura greca antica, dato che Lyacos è nato ad Atene nel 1966. E non è strano che il protagonista sia un uomo in viaggio, come Ulisse, immerso in una fuga allucinogena fra terre desolate, prigioni, amori inutili, violenza, morti che risorgono, visioni divine... Più peculiare è che l'autore di Poena Damni, la trilogia composta dai tre libri sopra citati, molto acclamata a livello internazionale e appena pubblicata dal Saggiatore in cofanetto (pagg. 328, euro 23), parli anche italiano perfettamente («Negli anni '80 ho vissuto a Venezia: volevo stare un giorno e sono rimasto parecchi anni») e, ancora di più, che usi l'inglese come «lingua di lavoro»: «C'è una categoria filosofica, presente nella mia opera, legata ad argomenti che ho studiato in inglese». Ovvero - spiega in una lunga chiacchierata via zoom - la filosofia analitica.
Dimitris Lyacos, lei viene dalla culla del pensiero classico e parla di filosofia analitica?
«Ero a Londra, negli anni '90, per gli studi post laurea e, quando mi sentivano nominare Nietzsche o Heidegger, mi volevano sbattere fuori a calci... Per me è stata una seconda fase, in cui ho studiato anche la cultura analitica della filosofia, ed è stata molto utile: ora sono in grado di combinare le due tradizioni, di leggere Guattari e Deleuze e anche Quine e Davidson, di essere aperto sia a testi più scientifici e logici, sia a quelli più poetici e dell'avanguardia moderna e post strutturalista».
Come è nata la trilogia?
«È stata una cosa molto graduale: avevo l'intenzione, avevo dei temi, come il viaggio del protagonista, e delle idee, ma vaghe. C'erano dei testi, in greco, che poi hanno preso a svilupparsi. Quando ho finito, li ho ripresi e riscritti tutti: ho impiegato trent'anni. Mentre per il nuovo libro, che uscirà in Italia sempre per il Saggiatore, ho lavorato due-tre anni, anche se è lungo il doppio».
Come è possibile?
«È la biogenesi: gli elementi primari della vita sono incapsulati nelle pareti cellulari e questo permette loro di connettersi. Allo stesso modo, io ho creato uno spazio, la mia prigione cellulare personale, per lavorarci e farvi accadere le cose; ma è una procedura lenta, far accadere le cose...».
Se lo aspettava?
«Certo non intendevo metterci trent'anni. La prima versione è uscita in inglese nel 2000, una seconda nel 2010; avrei anche potuto fermarmi, ma a me non importava che il libro fosse pubblicato o no: doveva progredire».
Il viaggio del protagonista che cos'è, un'Odissea, una discesa agli inferi dantesca?
«C'è una parola greca antica: khora. È il luogo senza forma dove, dice Platone nel Timeo, le idee entrano e si materializzano. Così, in Z213: Exit, c'è uno spazio indefinito che viene gradualmente definito dal viaggio del protagonista. Perché abbia iniziato il viaggio, e da dove fugga, non si sa: si sa che c'è questo senso di paranoia, e il protagonista si sente braccato».
Perché non si sa?
«È raccontato nel prequel, il nuovo libro che ho appena scritto, ed è come un trattato sullo sviluppo della violenza. Niente nella trilogia è stato scritto in ordine: è come una rete, formata gradualmente. Il prequel l'ho chiamato 0, come in fisica è chiamata zero la quarta legge della termodinamica».
Il paesaggio è una terra desolata?
«Si può dire che sia un paesaggio post apocalittico, ma c'è un soggetto che si muove attraverso di esso e quelle narrate sono le sue esperienze soggettive, che potrebbero non essere reali. Forse è un narratore inaffidabile, a differenza che in Eliot».
La libertà che cos'è qui?
«Una volta ho detto che questo è un libro sulla catena alimentare. Nello stato di natura, quando un animale dà la caccia a un altro, libertà è andare avanti, altrimenti ti prendono. Sei libero fintanto che continui a combattere per la tua sopravvivenza, e prosegui con il tuo viaggio».
Come si è umani, in questa lotta?
«Una risposta è: c'è un uomo, che proietta il suo mondo nel paesaggio del viaggio e che, mentre procede, crea un universo tutto suo, per sé. Che poi lo possa condividere con altri... È un po' solo, in questo viaggio».
Ma poi è Con la gente dal ponte.
«È una performance, a cui assiste sotto un ponte derelitto, nella quale un uomo cerca di far risorgere la donna amata. È un rituale, un ovvio riferimento al ritorno dei morti: un riconnettersi, presente in tutte le religioni, anche in quella greca antica. Santorini era un'isola di redivivi, e così pure Mykonos: molto del simbolismo del libro viene da questa tradizione popolare, che ho studiato. Il significato, beh, è la risurrezione».
Speranza quindi?
«Significa speranza, almeno fino all'ultima pagina... Però concordo: questa lotta fra l'uomo e gli elementi è espressione di forza e di energia; significa che l'uomo combatte, vuole andare avanti a vivere».
Anche La prima morte sembra finire nell'apparente speranza di un eterno ritorno.
«Oltre alla teoria del Big Bang, c'è quella del Big Bounce: nell'universo tutto si contrae, finisce e poi ricomincia, in un processo che va avanti in eterno. Ha presente il romanzo di Mark Danielewski, Casa di foglie? Dentro, la casa è enorme, ma da fuori è piccola. Così è la trilogia: piccola da fuori, ma apre uno spazio dentro, su molti livelli. È un testo aperto, in cui ci sono un elemento simbolico e uno narrativo, ci sono cose che accadono in uno spazio logico».
Combina scienza e letteratura?
«Scienza e letteratura, antropologia e religione, filosofia analitica e continentale... E, anche se la trilogia è finita, continua la ricerca per mettere ordine nell'universo. A volte mi chiedono quale sia il ruolo del poeta».
Che cosa risponde?
«Quale ruolo?, quale poeta? Dobbiamo domare la conoscenza e controllare la macchina. La mia ambizione è di andare avanti nel processo di comprensione e sistematizzazione, ma c'è un lavoro lungo di background da fare, con studi in campi diversi e, infine, bisogna raccogliere tutto in informazioni e distillarle in letteratura. Non sono uno che si siede e scrive».
Lo stile mischia frammenti, poesia, prosa, lettere che sbiadiscono, parole in greco antico, citazioni bibliche, pièce teatrali...
«I frammenti ci sono, ma si uniscono nell'insieme: a volte sono blocchi ordinati, altre sono qualcosa di aperto al disordine. Proprio come l'universo: a volte ci sono polvere e spazio vuoto, a volte i pianeti e le galassie».
Lo stile rappresenta l'universo?
«Sì.
Siamo qui, in questo angolo di spazio, e tutto segue le leggi della fisica, ma la nostra è una piccola sacca di ordine, mentre l'universo viaggia verso il disordine; e quindi c'è questa lotta per l'ordine, ed è quella che combatte il protagonista, e che portiamo avanti anche io, e lei, nella nostra vita quotidiana, o no?».
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