Difficile che Heidegger abbia mai letto Shakespeare. Si sarebbe prima o dopo inventato loccasione per citare quella battuta dellEnrico IV (parte I, atto 2, scena 3) che, con tono soavemente beffardo, col piglio leggero del bardo che andava cogliendo fior da fiore tra gramigne urticanti, avvertiva: «Ma io vi dico, signor mio idiota, che di tra quel cespo dortica, che è il pericolo, noi cogliamo quel fiore che è la salvezza».
Invece, meno per prossimità geografica e linguistica che per affinità stilistica e spirituale, il filosofo preferì citare a più riprese gli Inni di Hölderlin: quei suoi «orrendi inni superflui», ne disse un tedesco più «english stilisiert», Gottfried Benn. E ribadire a più riprese il motto che doveva suonargli profetico negli accenti del poeta folle rinchiuso nella torre sul Neckar: «Là dovè il pericolo/ cresce ciò che salva». Tra fumi di follia e germaniche cupezze non si può tuttavia trascurare di udire in quellannuncio (pronunciato allinizio di Patos) una nota di ottimismo. A quella si dovrà tendere lorecchio mettendosi pazienti (raccomanda lautore), ubbidienti (va da sé: ubbidisce, gehorsam, in Germania chi è tuttorecchi, Ohr), e indulgenti, allascolto degli heideggeriani Colloqui.
Non crescono ortiche né fiori sulla scena dei Colloqui su un sentiero di campagna (tradotti da Adriano Fabris e Antonia Pellegrino, Il Melangolo, pagg. 234, euro 30) che Martin Heidegger compose tra il 44 e il 45 sintonizzato più sulla chiave del pensiero poetante che della tragedia shakespeariana. Né si poteva dargli torto. Una tragedia tedesca, la catastrofe della sconfitta, la capitolazione della Germania, avevano fatto terra bruciata del suolo in cui si accingeva a camminare. Era un paesaggio annientato quello in cui, fuori da metafore o poetiche raffigurazioni, si muoveva il pensatore. Lo stesso descritto come un deserto crescente dallaltro folle profeta tedesco impazzito sul groviglio di radici soffocate nel terreno del nichilismo: Nietzsche.
Tuttavia Heidegger, ambientandovi le scene di Gespräche che appunto di nichilismo fanno questione, non manca di cogliervi in boccio qualcosa. E se lo scorge «nella frescura della giornata autunnale in cui il fuoco dellestate trova compimento nel sereno» o «dallalto di una torre da cui si vede il tremare del mondo», o nellalba di un campo di prigionia dove «qualcosa di benefico emana dalle fruscianti foreste di Russia», siate indulgenti. Siete avvertiti: Heidegger non è Shakespeare. Ma, chiudendo un occhio sul suo discutibile talento drammatico, o poetico, o stilistico di scrittore, si può prestare attenzione a ciò che in fondo non ambisce più che a esser «colloquiale».
È tutta qui loriginalità della forma prescelta dal filosofo che non era tenuto a misurarsi coi drammi del Barocco inglese ma si sentiva chiamato a prendere una distanza dai dialoghi dellAntichità greca. Del tutto estraneo al Platone dialettico, al Socrate maieutico, è lo Heidegger più confidenziale. Quello che, confidando nelle verità nascoste nelle parole, riposte nel linguaggio, si affida al discorso. Simbarca nel colloquio e lascia che lo porti. Senza puntare a alcuna meta: persuadere linterlocutore, confutare lavversario o dimostrare una tesi.
Che alla fine non arrivi da nessuna parte non deve sorprendere, né deludere. La sorpresa che lautore dei Sentieri interrotti, sempre In cammino verso il linguaggio riserva al suo lettore è unaltra. È la trasformazione spiazzante, straniante, disorientante di tutti i luoghi comuni più familiari e condivisi. Lessenza delluomo, messo in dubbio nelle sue azioni, decisioni, volontà, e quella del conoscere, privato del suo elemento decisivo, attivo, volitivo: «del suo carattere di lavoro e prestazione». La natura, la scienza che la oggettiva e la tecnica che la impiega a proprio uso e consumo. E via via che vagabondano in campagna i suoi personaggi - che più improbabili non potrebbero essere: linsegnante, il custode della torre, lo scienziato, lerudito, il giovane e il vecchio prigioniero - si abbandonano a confacenti pensieri peregrini. Che il caso non è casuale e il frammento non è frammentario. Che linutile - la filosofia più di tutto - è più auspicabile dogni utilitaristico calcolo. Che lattesa di quel che resta sempre da venire - lavvenire, lavvento di un dio, lavverarsi dogni promessa e presenza - è più autentica «di ogni brama a ghermire». Che il ritorno, il salto sul posto, il passo del gambero portano più lontano di ogni progresso o rivoluzione.
Non serve andare lontano.
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