Sedici anni di processo: il ministro era innocente

La Cassazione assolve Calogero Mannino: è stato 23 mesi agli arresti con l'accusa di collusioni mafiose. E ucciso politicamente dai magistrati. Ma chi lo ripagherà della gogna e delle umiliazioni?. Intervista all'ex ministro 

Sedici anni di processo: il ministro era innocente

Lo avevo annunciato; e oggi è accaduto. Un lieto fine, e insieme una storia amara e triste. Difficile uscirne a testa alta per chi ha cercato con tenacia di piegarla a un innocente. Riconosciuto da un tribunale, in nome del popolo italiano. Calogero Mannino è stato assolto dalle accuse di associazione mafiosa, con sentenza definitiva della Cassazione. Un caso esemplare perché l’illustre esponente democristiano fu prima inquisito dalla Procura della Repubblica di Palermo, il 24 febbraio 1994, e poi arrestato un anno dopo e privato della libertà per ventitré mesi.

Dopo diverse vicissitudini processuali, innumerevoli udienze, quattrocento testimoni, di cui duecentocinquanta dell’accusa, con incredibile dispendio di denaro, una sentenza di assoluzione in primo grado, una condanna in secondo grado e poi l’annullamento da parte della Cassazione con rinvio a un altro procedimento della Corte d’appello concluso con l’assoluzione, si arriva finalmente dopo sedici anni alla sentenza definitiva. E adesso, pover’uomo, si potrebbe dire di Mannino. Sedici anni di gogna e di menzogne, di umiliazioni, di mortificazioni, una parte di vita perduta. E perché? Chi paga? Io posso essere soddisfatto, e Mannino sollevato. Ma Giancarlo Caselli come starà? Da qualche tempo, dopo l’esemplare vicenda Andreotti, soprattutto, si è affermata la formula elegante: «Ci si difende nei processi, non dai processi».

E perché mai questa visione penitenziale? Perché io devo farmi processare da chi mi accusa senza prove per dimostrare un suo teorema? Questo non è giustizia. È un morboso rapporto tra vittima e carnefice, tra sadici e masochisti; e non per il divertimento di un giorno, ma per un lungo tempo di pena e, in casi clamorosi come quello di Calogero Mannino, con una interminabile privazione della libertà che, se immotivata, corrisponde a un sequestro di persona. L’errore è di un uomo, ma se compiuto in nome della legge, il responsabile è garantito da uno scudo ben più forte dell’immunità parlamentare (oggi di fatto inesistente). In sostanza se io dico «mafioso» a uno che non lo è, posso essere perseguito per diffamazione; se lo dice un pubblico ministero con la presunzione di un’indagine motivata, io devo difendermi dall’accusa, magari «nel processo», e il pubblico ministero che mi ha accusato ingiustamente non compie diffamazione.

Cosa fa allora? Sbaglia, infanga, priva della libertà. E la vittima, se mai, viene risarcita dallo Stato. Mannino ha perso «nel» processo sedici anni. Caselli si scuserà? Si vergognerà? La questione è, prima di tutto, etica. Perché accusare qualcuno di mafia vuol dire crearsi l’aura di combattenti dell’antimafia, di eroi, immacolati e intoccabili. Lo so bene io che vengo continuamente aggredito perché ho osato criticare Caselli. Adesso cosa si dirà? Che la sentenza della Cassazione è sbagliata? Ma la parola d’ordine non è: difendersi nei processi, rispettare le sentenze? E Caselli, dunque, avrà la coerenza di rispettare la sentenza e la dignità di scusarsi con Calogero Mannino? E Travaglio? L’ammiratore incondizionato di Caselli, il principale sostenitore della necessità di aspettare e rispettare le sentenze, anche sopportando sedici anni di ingiustificata pena, ieri scriveva sul Fatto Quotidiano il suo solito fondo commentando le dichiarazioni di Ciancimino su Schifani «che faceva l’autista al senatore La Loggia... E Cuffaro che guidava la macchina a Mannino», mentre lui stesso accompagnava suo padre. Una ricostruzione ironica, quella di Ciancimino: «I tre autisti eravamo questi... Andavamo a prendere le cose al bar per passare il tempo... Ovviamente loro due, Cuffaro e Schifani, hanno fatto altre carriere: c’è chi è più fortunato nella vita e chi meno... Ma tutti e tre una volta eravamo autisti». Travaglio chiosa: «Ecco, pare di vederli, Massimo, Totò e Renatino in gessato grigio a righine e Ray-Ban neri, appoggiati ad ammiraglie scure che si raccontano barzellette, fumano una sigaretta via l’altra e ammazzano il tempo con un caffè al bar e due tiri al biliardo, mentre i loro padroni, tutti splendidamente ammanigliati con la mafia, tenevano i loro summit ai piani superiori per decidere come saccheggiare Palermo, pilotare appalti, creare strane società». Dunque, nonostante la sentenza di secondo grado, per Travaglio Mannino è ammanigliato con la mafia.

Un’altra, esplicita diffamazione. Oggi, dopo cinque processi e la sentenza definitiva, cosa scriverà Travaglio? Si scuserà? Dirà che Caselli aveva torto? O si appresterà a difendersi nei processi per le sue diffamazioni «nei processi»? Io penso che questi sedici anni sono stati sedici anni di giustizia perduta, di soldi spesi male, di inaccettabile violenza.

Non era meglio, con vantaggio di tutti, e non solo di Mannino, difendersi «dai» processi? Non sarebbe stato più dignitoso e onesto anche per Caselli? O il punto di vista suo e di Travaglio sarà che il tribunale ha sbagliato? Come avere fiducia nella giustizia, dunque, se i giudici sbagliano?

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica