
Carlo Alberto Redi è professore di Zoologia all'Università di Pavia, accademico dei Lincei e presidente del Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi. Manuela Monti insegna Istologia ed Embriologia all'Università di Pavia. Insieme hanno scritto Genomica sociale, un libro breve ma densissimo edito da Carocci in cui spiegano «Come la vita quotidiana può modificare il nostro Dna» e, anche, come il nostro Dna, così modificato, si trasmetta nelle generazioni successive, influenzando così la loro salute e il loro futuro e, allo stesso tempo, la società e il mondo in cui viviamo. Di questo Redi e Monti hanno parlato in un intervento in questi giorni a Milano durante «Designing Togetherness», progetto di Fondazione Francesco Morelli nell'ambito di The Glitch Camp, il campeggio urbano gratuito dell'Istituto europeo di design.
Professoressa Monti e professor Redi, che cosa ci fanno due scienziati alla Design Week?
«Ce lo siamo chiesti anche noi... Ma in realtà è semplice: si parlava di Designing Togetherness; e lo stare insieme si lega a quello che possono raccontarci l'arte, la letteratura e il design, ma ci sono anche dei dati scientifici che ci dicono che siamo tutti collegati, in modo profondo. E noi abbiamo parlato di questo, del dato scientifico».
Il titolo dell'intervento era «Da in-dividuo a con-dividuo». Che significa?
«I dati indicano fortemente che quella che consideriamo l'individualità, l'unicità della persona, vada riconsiderata: tutti noi otto miliardi sul pianeta condividiamo completamente, nel profondo, a partire dal genoma. Sotto quel profilo non c'è unicità. E condividiamo anche nel corpo: il microbiota, quel chilo e mezzo di protozoi, batteri, virus e funghi nell'intestino che ha un ruolo cruciale nel regolare la fisiologia, l'immunità, l'umore e gli affetti, è in comune quasi al cento per cento con il partner, all'80 per cento con le persone con cui lavoriamo e al 50 per cento con chi incontriamo sui mezzi. Perciò parlare di individuo è limitato: siamo con-dividui».
In cifre?
«Solo l'uno per mille del genoma di ciascuno di noi è diverso da quello di un altro: è una frazione insignificante, e inoltre quell'uno per mille non codifica nemmeno le proteine. Questo può essere anche terrorizzante... Comunque ne derivano fatti importanti: innanzitutto che non esistono le razze. E poi che interviene l'ambiente: siamo il prodotto dei nostri geni e dell'ambiente, inteso in senso ampio, come le nostre interazioni, il nostro stile di vita, la dieta, dove e come viviamo, le nostre emozioni, i contesti sociali, lavorativi e famigliari. Dallo stesso genoma, i risultati sono diversi se uno vive nell'Upper East Side a New York o in un Paese in guerra».
La cosiddetta epigenetica. Ma voi aggiungete che tutto questo si eredita.
«La chiamiamo genomica sociale. Se viviamo con poco cibo o acqua, o in un ambiente di grande stress lavorativo, di povertà o di violenza, o respiriamo degli inquinanti si producono delle molecole che marcano il nostro Dna e ne modificano il comportamento e, quindi, influenzano anche il funzionamento degli organi e dei tessuti; e queste modifiche possono essere trasmesse».
Per esempio?
«Un studio ha mostrato come i bambini, figli di padri che erano stati abusati sessualmente da piccoli, abbiano sviluppato patologie metaboliche importanti. C'è il fenomeno terribile dello stunting: se nei primi mille giorni di vita non ricevono cure e affetto, non solo i bambini crescono poco, ma nell'adolescenza sviluppano malattie cardiovascolari e metaboliche, a volte fatali. Sono oltre 160 milioni nel mondo i bambini che ne soffrono».
È come se non ci si liberasse del proprio bagaglio, del proprio passato?
«È così. Però vale anche per le modifiche non negative, per esempio quando il modo in cui viviamo stimola le nostre cellule a rilasciare i cosiddetti ormoni della felicità. E, soprattutto, queste modifiche sono reversibili, perciò la politica può agire per eliminare le disuguaglianze, l'inquinamento, la povertà. Conviene a tutti».
Perché siamo interconnessi?
«Se nella povertà si originano delle epidemie, o delle situazioni di conflitto sociale, tutta la società ne risente, sta male. Di fronte allo sviluppo delle malattie, la sanità spende di più.
La società ha interesse a ridurre la violenza, le disuguaglianze, lo stress e la povertà, per aiutare il nostro corpo; quindi, ha interesse a essere più armoniosa. E poi la generosità fa bene alle cellule: ci aiuta a produrre gli ormoni della felicità».
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