Sotto il travestimento del Carnevale deve esserci la nostra vera identità. Non un'altra maschera

In questa domenica di Carnevale mi soffermo invece a ragionare su quanti travestimenti viviamo ogni giorno

Sotto il travestimento del Carnevale deve esserci la nostra vera identità. Non un'altra maschera
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Un amico mi ha provocato: «Io non mi confesso da anni perché ritengo voi preti degli illusi. Volete manipolare le coscienze, ma basta poco per fregarvi con le vostre stesse dinamiche: infatti se io venissi a confessarmi potrei dire come ultimo peccato ho detto bugie e allora sarebbero comprese quelle dette fino a quel momento, quindi anche i peccati che voglio nascondere. Così vi avrei fregato!».

A parte il fatto che non ho mai incontrato un confratello affamato di liste di variabili pruriginose, anche se il ragionamento teoricamente fila, a cosa serve una maschera così? Sono convinto che se c'è una qualità di Dio che da preti si impara nel confessionale è quella di dimenticare le colpe e staccarle dalle persone: nel momento in cui assolvi, scivolano via e non associ mai qualcuno a ciò che ha fatto. La persona è sempre di più del suo sbaglio. Invece spesso si presuppone il contrario e ci si sente dire: «Non mi confesserei mai da te perché mi conosci». Ma su questo potrei fare un altro articolo prossimamente.

In questa domenica di Carnevale mi soffermo invece a ragionare su quanti travestimenti viviamo ogni giorno. Le maschere dei bambini, che almeno sono dichiarate come festa, rispetto a quelle degli adulti di tutti gli altri giorni, indossate per ipocrisia e mediocrità, mi fanno riflettere sulle percezioni deformate della realtà. I colori dei coriandoli, delle stelle filanti, dei vestiti che oggi invadono le strade, le scuole, le case, stridono con il solito opaco grigiume.

Le voci festanti azzittiscono il troppo comune brontolamento noioso e annoiato. Le risate tolgono spazio alle urla irose delle discussioni. La fantasia dei personaggi dà scacco matto ai pregiudizi blindati e ottusi. C'è secondo me una delle figure più tradizionali che può aiutare a scoprire un messaggio prezioso nascosto in tutto questo: Arlecchino, che si dice nato nella mia Bergamo. Il nome dal francese Hellequin (allocco, poveraccio) viene dalla storia di un bimbo triste e a disagio con i compagni entusiasti dei loro abiti da festa. La sua famiglia molto povera a fatica ha da mangiare e quindi non può permettersi stoffe per un vestito per una festa. I compagni erano entusiasti di come si sarebbero vestiti: abiti colorati, tessuti pregiati. Tutto bellissimo, tranne che per lui. I suoi amici, vedendolo così cupo, decisero di chiedere alle loro mamme un pezzo di stoffa avanzato dai loro vestiti. Avrebbero fatto di tutto per farlo partecipare. Il giorno dopo tutti portarono questi bellissimi ritagli di scampoli, ma si resero conto che erano diversi per materia, colore, forma. Non ne usciva nulla. Cosa se ne facevano? Erano dispiaciuti. Li donarono lo stesso ad Arlecchino che subito però ringraziò dicendo loro che la sua mamma avrebbe saputo cosa farne. L'amore si fece fantasia e unì le tante piccole differenze cucendo quel vestito - divenuto famoso - e rendendolo speciale, molto più di quelli sontuosi e pregiati che sfoggiavano gli altri.

La parola «Carnevale» viene dal latino «carnem levare», togliere la carne (che in passato era il piatto della festa, mentre il pesce era cibo povero). È il giorno prima dell'inizio della Quaresima, con l'impegno all'essenzialità. È un gesto simbolico per dirci: oggi mettiti maschere, truccati, per poi essere capace domani di tornare alla tua pelle, di recuperare l'essenziale, di spogliarti di ciò che non è vero. «Carnem levare»: togli il sovrappiù, l'inutile, la zavorra, togli le maschere, togli l'ipocrisia, togli l'apparenza. Io credo che se qualcuno si mostrasse per quello che è, in tanti non lo riconoscerebbero, abituati a vederlo mascherato non a Carnevale, ma per tutto il resto dell'anno con facce diverse. Arlecchino insegna invece attenzione fattiva e premura concreta, al contrario della preoccupazione che gonfia le cose e si nutre solo di parole. Insegna a riconoscere piccoli gesti di amore e condivisione. Insegna la sfida di essere contenti della gioia degli altri, contro la logica dell'apparire, dell'invidia, della gelosia.

Insegna l'allegria nell'anima fatta dalla fantasia del cucire, contro la logica dello strappare, tanto che a Carnevale tutto il mondo è giovane e persino bello, anche i brutti. Aveva ragione Charlie Chaplin: chi non ride mai, non è una persona seria.

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