Giuseppe Locati nasce a Monza nel 1939, e il suo destino pare segnato. Quattordici anni prima, suo padre Guido ha fondato le Officine Locati, fabbri e carpentieri che forgiano, a mano, recinzioni e altri oggetti in ferro e che diventano, con gli anni, una eccellenza brianzola: l'azienda è sinonimo di «serrande e chiusure di sicurezza», la famiglia è una famiglia di imprenditori doc e lui, Giuseppe, non può sfuggire al ruolo che gli spetta, da primogenito. E non sfugge, però dentro, nell'anima dell'imprenditore brianzolo, si annida uno spirito che vuole creare, studiare, inventare, conoscere, ragionare, costruire: dentro l'uomo azienda ci sono l'ingegnere, il matematico, il pittore, lo scultore, l'inventore, lo studioso di filosofia e tutte queste passioni non cozzano fra loro, anzi, si incastrano una nell'altra, riuscendo a fargli ottenere una serie di successi in campi molto diversi, dalle mostre ospitate da Monza (Giuseppe Locati. L'arte e il pensiero, nel 2017, con un bel catalogo pubblicato da Giorgio Mondadori) al Pirellone (dove le cancellate al piano terra dello storico grattacielo milanese sono state realizzate da una certa ditta brianzola...) a Tokyo e Barcellona, ai sei libri pubblicati, ai brevetti depositati.
Gli occhi azzurri sono sempre in movimento come le sue mani, mentre con i suoi modi da signore racconta le sue teorie filosofiche e matematiche, spiega le sue idee, quelle realizzate e quelle che ancora non è riuscito a concretizzare, ride perché non usa nemmeno il computer per scrivere, scrive a mano, proprio lui che si interessa tanto di scienza e intelligenza artificiale, insiste che quello che gli interessa di più è il pensare, il frutto delle sue riflessioni e, intanto, non si ferma un momento. Per dire, durante i mesi di lockdown Giuseppe Locati non si è abbattuto o tanto meno impigrito: «Ho fatto di tutto, ho lavorato giorno e notte. Ho scritto parecchio. E poi mi sono dedicato alla scultura e alla pittura, ho fatto molte tavole di grandi dimensioni, venticinque fra quadri, disegni, bozzetti... Un piacere, lavorare in silenzio». Insomma, nei mesi scorsi avrebbe dovuto presentare due libri (La teoria della disuguaglianza e Il mio pensiero completo, entrambi editi da La Fronda) ma, nel frattempo, ne ha scritto altri due: «Uno è Il punto zero del conoscere, sullo spirito umano di conoscenza e, anche, su dove nasce l'errore del conoscere; l'altro si intitolerà Scienza o filosofia?».
Già, scienza o filosofia, eppure la sua strada sembrava già tracciata: le Officine di famiglia. Scienza applicata.
«Eh sì, dovevo fare l'industriale, l'imprenditore. Mio padre fondò la ditta più famosa, in Brianza, per le serrande e le chiusure di sicurezza, una ditta particolare, un po' come la Ferrari: al nostro interno produciamo tutti i pezzi, tranne viti e serrature. Per il resto, tutto, ogni singola parte».
E quindi?
«Quindi nasceva spontaneo che facessi qualcosa di scientifico, anche se ero più portato per le cose umanistiche e, dato che, allora, non mi piaceva la matematica, scelsi ingegneria. Ma, in un certo senso, sebbene sia stato faticoso, l'ho fatto con grande interesse, perché per me c'è sempre stato il desiderio di unire in un conoscere unico gli aspetti scientifici e quelli umanistici, ho sempre voluto studiare il rapporto fra natura e spirito, anche al liceo. Poi, negli anni '70, ho anche iniziato a scrivere queste cose, nella Logica del pensato».
Prima però si è laureato al Politecnico.
«E poi sono entrato in azienda. Ero il maggiore di quattro fratelli, tutti maschi».
E sua madre?
«Stava dietro all'azienda. Ce ne siamo occupati io e un altro fratello e, oggi, è in mano ai nostri figli: mio figlio e mio nipote, che per me è come un figlio. Mia figlia invece vive sul Lago di Garda».
Che cosa faceva a capo dell'azienda?
«L'imprenditore classico, che deve fare tutto. Anche se io sviluppavo di più la parte tecnica e di progetto degli impianti, e mio fratello quella commerciale».
E nel frattempo?
«Nel frattempo il mio cervello lavorava, e c'era questa voglia tremenda di capire perché siamo di fatto divisi a metà, con un pensiero concreto legato alla materia e uno, astratto, legato al sentimento. Il mio compito è stato quello di risolvere questa ambiguità. E, intanto, viaggiavo con le mie opere d'arte. La prima mostra l'ho fatta a quindici anni, all'Arengario a Monza».
A quindici anni?
«Io sono artista, per prima cosa. Faccio quadri e opere figurative da quando ho dodici anni. E, anche in questo, ho sempre lavorato sodo, come è mia abitudine: già da ragazzo ne facevo parecchie, di opere. Poi tutte queste cose, in me, si muovevano in contemporanea, anche con i brevetti».
Ecco, i brevetti.
«Ne ho realizzati parecchi. Molti sugli articoli che producevo, per esempio uno di particolare successo è stato la costruzione di voghe autoportanti per solette di pavimenti».
Che sarebbero...?
«Sono profili in ferro a incastro, larghi 25 centimetri, alti cinque e lunghi fino a 6-11 metri, che si usano per i soppalchi, per gli impianti meccanici, come camminamenti. Per esempio, per i restauri delle volte di San Marco a Venezia...».
Fuori dal suo ambito?
«Ho sempre avuto la passione per lo sci, sono entrato in quel mondo alla scuola Nagler, allo Stelvio, dove frequentavo il corso agonistico: Thöni padre era il mio maestro e in corso con me c'erano suo figlio Gustavo e Mariolino Cotelli, eravamo in sei. Ho seguito per cinque o sei anni la fabbrica Persenico, poi Spalding-Persenico, per la quale ho realizzato una serie di brevetti, fra cui lo sci a doppia lamina, in cui ogni sci è dimezzato, e con il quale Stefano Anzi arrivò terzo ai campionati italiani; e poi lo sci da chilometro lanciato, il cui concetto base erano delle squame, grazie alle quali gli sci diventano autoportanti».
Che cosa succede?
«Oltre i 140 km/h gli sci si sollevavano sulla neve, perciò li chiamarono gli sci che fischiavano, perché in effetti c'era un sibilo. Questo brevetto è stato provato dagli azzurri del chilometro lanciato, poi una ditta americana lo ha copiato e adattato agli sci normali, e una sua applicazione è ancora venduta negli sci da fondo: serve per non andare indietro, grazie a delle piccole squame».
A quando risale il suo primo brevetto?
«Il primo in assoluto a quando avevo 24 anni ed ero al Politecnico, sulle strutture geodetiche».
Sono strutture affascinanti.
«Era un lavoro legato alla meccanica, per la ditta, e riguardava strutture geodetiche autoportanti con soli due pezzi: accoppiati e replicati, potevano dare tutte le possibilità di combinazioni per le varie strutture».
E l'ultimo?
«Sei mesi fa. È un motore che sfrutta una nuova forma di energia rivoluzionaria, il calore e le sue variazioni. Questo è un progetto già brevettato ma, per realizzare un prototipo, servono due o tre anni: è un cosettino grande così, un aggeggino di 45 centimetri, mostruosamente potente. Poi un altro progetto, molto importante, è un impianto che ho costruito, e per il quale ho studiato dieci anni».
Di che cosa si tratta?
«Pannelli di coibentazione termica e acustica di bassissimo spessore. Questo impianto è in grado di produrne 500 metri quadri al giorno. Sono pannelli da interni, un cappotto interno con uno spessore che è un terzo rispetto a quelli commercializzati, e in più tutto è fatto con materiale riciclato: ci credevo così tanto che l'ho realizzato. Poi, tante volte invento cose strane...»
Per esempio?
«Il tappo che si stappa senza cavatappi... Ho idee a mazzi, ma non ho il tempo di svilupparle, perché in ordine di importanza vengono: la ditta, l'attività immobiliare - costruisco di continuo - l'attività artistica e quella filosofica che, al momento, è quella che mi prende la maggior parte del tempo, e poi le invenzioni».
Sono le ultime della lista?
«Le ultime. Quando vengono, vengono. Ma tutto collima, è un insieme di cose, le opere d'arte sono la grafica del mio pensiero, per esempio Il punto zero del conoscere, oltre che un libro, è una serie di quadri con estroflessioni e macchie di colore».
Che cosa dipinge?
«Ho avuto parecchie fasi consequenziali una all'altra, in un percorso molto figurativo e, dopo il Politecnico, il filone è quello della ricerca di una bellezza più legata al mondo del pensiero e alla meditazione, che non al mondo delle cose. Da quando ho iniziato, a dodici anni, non ho mai smesso di dipingere, neanche un giorno. Ho avuto anche una fase transitoria di arte astratta».
E la scultura?
«È nata poco per volta e poi si è sviluppata, tanto che ora per me è dominante e incorpora la pittura».
Vende le sue opere?
«Sì. Faccio mostre, come quella al Pirellone dello scorso anno e, in precedenza, alla Villa Reale di Monza, dove mi hanno concesso di esporre le mie opere all'interno degli appartamenti reali: erano ventotto sculture, per ventotto stanze».
E al Pirellone?
«Era una mostra sul mio percorso completo, dal titolo Giuseppe Locati. Dalla Lombardia al mondo, perché i miei cancelli sono in tutto il mondo, anche in Asia, negli aeroporti...».
C'è un'opera a cui tiene particolarmente?
«No, è un crescendo di quello che mi piace».
Di che cosa è più orgoglioso?
«Del mio risultato filosofico, che ha trovato la sua definizione e concretizzazione in Scienza o filosofia?. Il dilemma dei nostri giorni è l'incongruenza fra scienza esatta e realtà non esatta, e il suo superamento avviene attraverso il pensiero post euclideo: alla fine, una scienza quasi esatta interpreterà una realtà quasi esatta».
C'è qualcosa che vorrebbe fare?
«Ho il terrore di finire un libro e non andare oltre; invece il giorno dopo ne trovo sempre un altro, e così torno piacevolmente a tormentarmi».
Quanti libri ha scritto?
«Sei, oltre ai due nel cassetto appena finiti».
Ma quante ore lavora al giorno?
«Non ci sono le ore... Lavoro tutto il giorno e anche di notte, dormo poco, quattro o cinque ore».
E sua moglie che cosa dice, di tutto questo lavoro?
«Mia moglie è felicissima, perché legge molto, quindi meno la disturbo, meglio è».
È ancora imprenditore, insomma lavora ancora anche in azienda?
«Direttamente no. Mi occupo più di cose immobiliari, costruzioni di capannoni o edifici industriali, in Brianza».
Senta, lei è un po' il prototipo del brianzolo.
«È vero, sono figlio della Brianza. Se da noi viene uno che dice prendiamo un caffè, è già tagliato fuori: non si perde tempo, ci arrabbiamo... È una regione particolare, che ha anche paesaggi bellissimi, quelli che si vedono nei dipinti dei pittori degli anni Cinquanta e Sessanta, o negli studi di Leonardo».
Le piacciono i paesaggi, è uno che cammina?
«Altro che. Ho percorso sessantacinquemila chilometri di corsa, nella mia vita. Facevo la maratona in Italia, sempre, e la Monza-Resegone».
Quanto impiegava?
«Due ore e 58 minuti. Correvo dieci/dodici chilometri al giorno, più trenta alla domenica».
E quando correva, scusi, fra l'azienda, i cancelli, gli
impianti, i quadri, le sculture, i brevetti, i capannoni, i libri di filosofia e la geometria post euclidea?«Nell'ora di pranzo. Così, mentre correvo, potevo pensare, perché non c'era nessuno a rompermi le scatole».
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