Abbiamo perso le parole per raccontare le periferie

Non ci sono scrittori capaci di rivolgersi anche al mondo marginale, agli "sconfitti" e ai ribelli

Abbiamo perso le parole per raccontare le periferie

Alcuni giorni fa, con l'aiuto dello scrittore Marco Balzano, ho improvvisato un incontro, destinato agli studenti di Lettere, su un tema per ora insolito, ma che merita un futuro. Avendo organizzato nel mio teatro (Teatro Oscar, Milano) una sorta di confronto a distanza tra Giovanni Testori e Dario Fo, durante la preparazione una domanda era sorta: che fine ha fatto tutta quella linea letteraria che, da Manzoni e poi attraverso il Porta, il Tessa, Gadda e, appunto, Testori e Fo, si è spesa cercando di dar voce, in un modo o nell'altro, a tutto quanto è periferico, marginale, estromesso, sconfitto? Che fine ha fatto quella lingua ibrida nella quale, in passato, fu identificata in letteratura la cosiddetta «linea lombarda»?

In altre parole: chi è - se c'è - l'erede di quel mondo ma, più ancora, di quella tensione narrativa? Quello che poteva esserlo più di tutti, ossia il sottoscritto, non lo è stato. Dove sono finiti, allora, i preziosi semi della gloriosa lingua barbarica che tanta benefica follia letteraria ha disseminato?

Ne abbiamo parlato con Balzano, con un fotografo - Marco Garofalo - che sta documentando le periferie europee attraverso i loro protagonisti e presenterà a novembre a Strasburgo il risultato del suo lavoro, e con un importante rapper e produttore della scena milanese, MosèCov, collaboratore di artisti come Marracash e Guè Pequeño.

La chiacchierata, avvenuta davanti a una cinquantina di ragazzi e dominata dalla lucidità di MosèCov, ha messo in luce due elementi di grande interesse.

Il primo, e principale, è che il testimone di quella gloriosa epoca è passato nelle mani di rapper e trapper: la voce autentica della marginalità è ormai la loro, anche se - ovviamente - nessuno degli esponenti di questo movimento ha mai pensato a Manzoni Fo o Testori come ad altrettanti modelli.

Il secondo è che questo mondo, la cui valenza culturale è tutt'altro che trascurabile, si trova, oggi, completamente separato da quello della letteratura e della cultura ufficiale. Il salto che uno scrittore di oggi deve compiere per entrarci è troppo grande. Può teorizzare, sociologizzare, se gli piace, ma ne rimane radicalmente fuori, e ogni tentativo empatico sa immediatamente di artificio, di strizzata d'occhio.

Ci troviamo, in altre parole, nella necessità di ripensare da capo, sempre che sia possibile, il rapporto tra la cultura letteraria del nostro tempo e quelle narrazioni periferiche, che si fanno forti di una lingua e di uno stile particolari, strettamente connessi alla natura di quel mondo tanto claustrofobico quanto diversificato (una scena diversa per ogni contesto, città, quartiere).

Questa situazione di separazione è, va da sé, una sconfitta per la letteratura. Il nostro più grande scrittore, Alessandro Manzoni, colse perfettamente il problema. Lui, nobile e ricco, figlio dell'età dei Lumi, già autore stimatissimo di capolavori destinati all'élite che i francesi chiamavano «La Repubblica delle Lettere», decise di sporcare (e moltiplicare) la propria lingua affinché non solo l'epopea dei miseri e degli sconfitti fosse raccontata, ma lo fosse nella «loro» lingua: una lingua che emerge pian piano dentro una specie di turbine fatto di tante lingue (quella degli storiografi, quella degli avvocati, quella dei guitti, quella dei preti ecc.) dentro il quale quel mondo fragile si trova come sballottato e ingannato, ma non perde la «sua» parola.

Oggi, osservava Marco Balzano, ogni scrittore dovrebbe, da parte sua, a ogni libro, rifare da capo l'enorme fatica del Manzoni. Ecco il giusto obiettivo. Ma non è così semplice, e in ogni caso non sta succedendo: è già difficile aprire un romanzo e trovarci una lingua che sia semplicemente «naturale», come diceva Mario Luzi: «cantami qualcosa pari alla vita».

Sembra insomma che oggi l'invito del grande poeta possa essere

raccolto solo dalla scena hip hop e dal suo sviluppo odierno. Sembra. Per dire se poi sia veramente così, occorrono studi adeguati, italianisti aperti e curiosi, disposti a mettere a repentaglio i loro metodi. Io so che ci sono.

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