Nell'immediato secondo dopoguerra, alla fine degli anni quaranta, in un momento nel quale si discuteva da più parti delle prospettive postbelliche, apparve in traduzione italiana un bel volume di uno dei più grandi scrittori cattolici di lingua inglese, Hilaire Belloc, dal titolo La crisi della civiltà. Il libro, che raccoglieva una serie di lezioni tenute a New York presso la Fordham University, si inseriva appieno in un filone di «letteratura della crisi», allora particolarmente fiorente, che vide apparire, tradotte in Italia, opere divenute celebri come Il tradimento dei chierici (1946) di Jules Benda, Civitas Humana (1947) di Wilhelm Röpke, Lo scempio del mondo (1948) di Johan Huizinga e via dicendo.
Rispetto a questi lavori, il volume di Belloc, che ebbe forse minor fortuna ma che non è certamente meno suggestivo e stimolante, proponeva una originale tesi interpretativa della decadenza del mondo e della civiltà occidentali. In breve, lo scrittore inglese, compagno di battaglie politiche e letterarie di Gilbert Keith Chesterton, sosteneva che, a partire dal XVI secolo, con l'esplosione della Riforma, e poi, più avanti, nei secoli successivi, era maturata la fine dell'unità della Cristianità e si era indebolito il principio stesso dal quale dipendeva la civiltà occidentale. In altre parole si era verificato esattamente l'opposto di «quanto era accaduto all'inizio della nostra civiltà» allorché la religione cattolica aveva salvato il mondo antico e creato una nuova cultura. Le conseguenze della Riforma si erano prolungate nel tempo e si erano manifestate in tanti modi a cominciare dalla crescita del proletariato e del capitalismo al dominio dell'usura e della concorrenza sfrenata in economia, dal regno delle macchine e dei mezzi di comunicazione all'affermarsi di ideologie e di regimi totalitari.
A questa lettura della storia culturale e politica della civiltà occidentale una lettura, in fondo, ortodossa del filone tomistico del pensiero cattolico e della quale un'eco significativa si ritrova in un bel saggio di Jacques Maritain che, già nel titolo, Tre Riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau (1928), stabilisce una linea di continuità del processo di emancipazione dell'individuo da ogni forma di autorità spirituale e politica Hilaire Belloc rimase sempre fedele. E l'eco di una tale interpretazione è sempre presente nei suoi lavori di saggistica politica o di ricostruzione storica.
Quando, per esempio, nel 1929, pubblicò il saggio su Richelieu ora riproposto con il titolo Richelieu e la nascita dell'Europa moderna (pagg. 312, euro 20) dalla casa editrice Iduna Belloc si propose di scrivere non tanto una biografia nel senso tradizionale del termine quanto, piuttosto, di spiegare il motivo per il quale il cardinale può essere considerato il «fondatore dell'Europa moderna» nel bene ma anche, forse soprattutto, nel male. Il risultato principale della politica di Richelieu sarebbe stato, secondo l'autore, quello di avere esacerbato, rendendola permanente, la frattura tra mondo cattolico e mondo protestante e di avere contribuito alla frantumazione della Cristianità in una miriade di realtà nazionali gettando, altresì, le premesse per il successo di quel «culto della nazione», vera e propria religione laica all'origine della crisi contemporanea di civiltà e di cultura.
Belloc non negava affatto la grandezza di Richelieu né «il suo genio solitario e sovrano» che si concentrò sul progetto di creare lo Stato moderno, uno Stato assoluto e accentrato che avrebbe raggiunto il culmine della sua perfezione durante il regno di Luigi XIV. Tuttavia gli rimproverava di aver contribuito pur «senza accorgersene» alla «rovina dell'unità comune del mondo cristiano». Del tutto estraneo ai filoni storiografici tendenti ad esaltare il ruolo dei fattori sociali od economici ovvero materiali nella storia, Belloc era un sostenitore della tesi che «la volontà dell'uomo» potesse dirigerne il destino «collettivamente come individualmente» cavalcando ovvero combattendo certe «pericolose correnti» o situazioni, segno del tempo.
Quando Richelieu fece la sua apparizione da protagonista sulla scena pubblica, la Francia attraversava un periodo di gravi difficoltà. All'interno, la Corona era sottoposta alle spinte centrifughe e alle pressioni anticentraliste di un'aristocrazia che celava l'ancestrale desiderio di affrancamento dal potere centrale del Re sotto un'«apparenza religiosa» e una «fisionomia calvinista». All'esterno, poi, essa si trovava anche territorialmente accerchiata dai domini dei due rami della dinastia degli Asburgo, quelli della casa d'Austria alla testa dell'Impero e quelli della Corona di Spagna.
Il Cardinale era un uomo di eccezionali doti politiche. Amava il potere e sapeva gestirlo con spregiudicato cinismo e machiavellismo. Il ritratto che ce ne ha lasciato Alexander Dumas nel celebre romanzo I tre moschettieri, come di un uomo egoista e corrotto e disposto a usare la religione come solo instrumentum regni, è diventato popolare ma è, verosimilmente, inesatto e fuorviante. Come pure, del resto, non coglie appieno il suo carattere quell'altra immagine, pure diffusa e stereotipata, che lo presenta, con riferimento soprattutto all'assedio alla fortezza ugonotta di La Rochelle, come un intransigente defensor fidei.
La verità, molto più semplice e ben raccontata da Belloc nel suo mirabile affresco storico, è che Richelieu, ambizioso e determinato nella ricerca del potere ma anche devoto al suo Re e al suo Paese, fu essenzialmente un geniale uomo politico che aveva assimilato la lezione spregiudicata e realistica di Machiavelli. Come ben mostrano le pagine di quel suo Testamento politico che è ormai considerato un testo fondamentale nella storia del pensiero politico moderno per le acute riflessioni in esso contenute sulla natura e sulla gestione del potere. Il suo realismo e il suo cinismo erano, sì, funzionali alle ambizioni personali e alla brama di potere, ma erano, anche, posti al servizio del monarca. In proposito Belloc scrive: «qualunque opinione ci si faccia di lui, dobbiamo ammettere che il rispetto di Richelieu per la Corona fu costante e grandissimo; e a tale rispetto si univa un profondo attaccamento per il re, in quanto re, e per la nazione incarnata nel principe».
Questa doppia devozione, al sovrano e alla Francia, è la chiave che consente di comprendere il comportamento del Cardinale in politica interna e in politica estera. Se infatti, egli fu l'uomo che, domando le spinte centrifughe dell'aristocrazia ugonotta e rafforzando l'esercito e l'apparato burocratico della monarchia francese, aprì la strada all'assolutismo regio, fu anche colui che, nel grande duello con gli Asburgo non esitò, durante la Guerra dei Trent'anni, a privilegiare gli interessi della Francia, per renderla la prima potenza del tempo, anche a costo di allearsi con i luterani. Scrive Belloc: «s'identificava con la nazione che dirigeva era lo scopo della sua vita di lasciare la nazione unita e le più potenti famiglie impotenti di fronte alla Corona. Raggiunse lo scopo».
Belloc non era uno storico di professione, ma aveva la capacità di leggere il passato alla luce del presente per cercarvi la spiegazione profonda, e spesso nascosta, delle cause che, a suo parere, avevano condotto l'Europa sull'orlo di una drammatica «crisi di civiltà» segnata dall'abbandono delle sue radici cristiane, dal relativismo religioso e dalla sostituzione della «religione rivelata» con tante religioni secolari o laiche, a cominciare da
quella del nazionalismo dei secoli a venire. E proprio in questo sguardo che trascorre dal passato al presente sia pure con arditi, ma argomentati paragoni come quello fra Richelieu e Bismarck sta il fascino dei suoi saggi.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.