Quando Cajkovskij arrivò a Sanremo, il 20 dicembre 1877, erano le ore 19: «Era buio, perciò la bellezza del luogo non ebbe parte della mia prima impressione, che fu molto sfavorevole». Da quella idiosincrasia iniziale - dovuta, però, non tanto ai luoghi in sé, quanto al primo albergo nel quale alloggiò: troppo pieno di gente e troppo caro - il compositore mai si riprese del tutto. Ma Sanremo, appunto, non aveva colpe: Cajkovskij vi soggiornò dal dicembre del 1877 al febbraio del 1878, e quindi in uno dei periodi più delicati e cruciali della biografia del grande compositore russo, perché coincise con la conclusione della sua Quarta Sinfonia e dell'Evgenij Onegin.
Alle spalle della permanenza ligure, però, c'era la vicenda traumatica del fallimento del suo matrimonio: Cajkovskij, nel luglio di quell'anno aveva sposato Antonina Miljukova con il solo obiettivo di nascondere pubblicamente la propria omosessualità e tacitare le voci che circolavano sul suo conto. Ben presto, però, si era accorto della sua insormontabile avversione, tanto fisica quanto mentale, per la moglie. Il compositore, così, chiese un'aspettativa dal Conservatorio, che pure rappresentava per lui un impegno gravoso, per fuggire da quei fardelli psicologici. E l'approdo di quella fuga dai fantasmi che agitavano il suo animo fu Sanremo.
L'appassionante lettura di Lettere da Sanremo (Zecchini Editore, pagg. 220, euro 27, a cura di Marina Moretti), che raccoglie per la prima volta in Italia le missive che il compositore scrisse dalla città dei fiori, restituisce a tutto tondo un personaggio del calibro di Cajkovskij, e soprattutto la sua mente, il suo spirito, la sua sensibilità. Le lettere più affascinanti sono proprio quelle private e intime, nelle quali il tono è spesso cupo e lascia trasparire in tutta nitidezza il malessere del suo autore. Come, ad esempio, questa del 18 gennaio 1878: «La salute è buona, la disposizione di spirito molto tranquilla, ma in fondo all'anima c'è sempre una piccola lotta con l'angoscia che segretamente mi rode. Da cosa è provocata? Che devo fare? Non lo so. Io attribuisco la colpa alla località di San Remo, che per un motivo del tutto inspiegabile mi provoca avversione. Forse è perché qui, effettivamente, a parte la riva del mare, non ci sono (o quasi) belle passeggiate, o per altri motivi, ma fatto sta che le passeggiate non mi procurano piacere - a me che in Russia non ho gioia più grande che vagare per foreste, campi e radure! In una guida ho letto che per le persone pletoriche e con nervi eccitabili non è consigliabile vivere in questo luogo. I colori sono troppo vivi, e anche l'aria contiene elementi irritanti».
La nostalgia della sua terra emerge bene in molti passi: Cajkovskij pensa alla Russia, «la cara Russia, la cui distesa di neve preferisco mille volte alle palme e ai cipressi di qui». L'avversione anche per gli alberi sanremesi è ribadita in un'altra lettera: «Io ho preso in odio gli alberi di olivo. A San Remo non è possibile fare nessuna passeggiata senza che ad ogni passo questi alberi insopportabili e brutti nascondano il panorama. Qui non c'è nessun point de vue, dovunque ti giri ci sono olivi, olivi, olivi». E così, «San Remo sembra così misera, povera, noiosa e fredda».
Il 18 febbraio 1878 fu l'ultimo giorno sanremese di Cajkovskij. La lettera che mandò alla baronessa von Meck traccia un bilancio che, chissà, forse grazie ai lavori portati a termine non è del tutto negativo: «Ricapitolando tutte le sette settimane che ho trascorso qui, giungo alla conclusione che mi hanno arrecato un grandissimo giovamento. Qui sono stato spesso triste. A causa dell'imperfezione della natura umana io soltanto in seguito sarò in grado di apprezzare del tutto quanto bene mi abbia fatto vivere in questo tiepido e tranquillo angolo di Italia. Addio, noiosa, ma terapeutica San Remo!».
Il soggiorno sanremese, scrive Cajkovskij al fratello sempre nell'ultimo giorno di soggiorno, gli permise di riflettere sui mesi precedenti e sul matrimonio: «Ho imparato a confrontarmi obiettivamente con tutto ciò che ho fatto durante questa breve follia».
Un'analisi che, come ribadì anche al suo editore con toni piuttosto accesi, lo portò a una migliore comprensione di sé: «Mi sono stancato di sembrare quello che non sono, di violentare la mia natura, per quanto possa essere pessima. Se volete, riconoscetemi, amatemi, suonatemi, cantatemi, incoronatemi di alloro e di rose, incensatemi; se non volete, ci cago e ci sputo sopra».
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