Iniziamo con Tolstoj. «Qual è il suo romanzo preferito?». Guerra e pace. «Anche il mio. Ma sa che oggi farebbe fatica a essere pubblicato, per via delle ultime cento pagine?» dice William T. Vollmann, in Italia in questi giorni, dove è uno degli ospiti principali al Festivaletteratura di Mantova (giovedì 8, ore 21.30). Minimum fax, che sta pubblicando tutta la sua opera, ha appena riportato in libreria Come un'onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza (pagg. 990, euro 25). Il saggio-monstre (in origine sette volumi), presentato sempre nell'edizione «condensata» di un migliaio di pagine («sì, l'ho fatto per soldi e, siccome mi ero ripromesso di non impiegare più di un'ora, è stato un lavoro molto ben pagato») è considerato uno dei capolavori dello scrittore californiano: il tema, al centro anche di tutti i suoi romanzi, racconti e reportage giornalistici, è la violenza, che affronta in termini di trattato filosofico, excursus storico e memoir.
Come Tolstoj, parla molto di guerra.
«È un mondo meraviglioso, ma c'è anche il male...»
Ha impiegato 23 anni a scrivere questo libro. Come è nato?
«Nel 1980 facevo parte del movimento antinucleare: nei college e nelle università americane c'erano questi gruppi di affinità, sulla scia di quelli della guerra civile spagnola, che operavano in modo indipendente, con l'idea di fermare la costruzione di impianti nucleari. Era un tipo di partecipazione molto pacifica, non violenta. Lo slogan era: Non sarà costruito. E indovini un po'?»
Non ha funzionato?
«Lo hanno costruito. E così ho iniziato a pormi delle domande su violenza e non violenza: come sarebbe andata se le nostre proteste fossero state violente, e come avremmo dovuto sentirci se, per esempio, ci fosse stato un incidente con diecimila vittime?; in quel caso, la violenza sarebbe stata giustificata?, e così via. Queste sono le domande che si pongono i terroristi, i comandi militari, i presidenti, e che ho cominciato a farmi anche io, senza rendermi conto di quante pagine e quanti anni mi sarebbero voluti per cercare di capire qualcosa. È un libro teoretico, ma ho avuto la fortuna di avere un po' di materiale giornalistico fra le mani».
È stato in Afghanistan coi mujaheddin, in Bosnia, in Cambogia, in Colombia...
«Ho colto l'opportunità di visitare questi luoghi, anziché, per dire, limitarmi a leggere i discorsi di Robespierre. Mi sono detto: perché non andare lì fuori a incontrare dei veri assassini?; perché non parlare con le vittime, e capire che cosa pensino? Le domande per me erano: quali scuse ci sono per la violenza e come si possono esaminare?; e, fra queste scuse, ce ne sono di buone, oppure la violenza è sempre non scusabile?»
Ci sono violenze giustificate?
«Certo. Se lei e io camminassimo per strada e qualcuno iniziasse ad attaccarci, io la difenderei a rischio della mia vita».
Grazie. Le è capitato? Lei possiede armi, come racconta.
«Sì. Però tutto può essere usato come arma, anche i coltelli da cucina. Quando parliamo di violenza, parliamo di intenzione: perciò dobbiamo considerare l'azione, e il perché di essa».
Esistono migliaia di «perché», anche i terroristi ne hanno uno... Come si fa a fare il «calcolo morale»?
«Parto da un presupposto: abbiamo il diritto di difenderci da una violenza imminente, oppure di non difenderci. Mi sembra un principio base, su cui la maggior parte delle persone può concordare; però, più la situazione è controversa, più tutto è complicato».
Risultato?
«Quello che ho imparato, e che avrei dovuto capire fin dall'inizio, è che non si può avere un calcolo morale definitivo e predeterminato su qualcosa. Per esempio, io sono una femminista americana, che vuole salvare una ragazzina somala dall'infibulazione; lei è una madre somala, che vuole che sua figlia si sposi e, quindi, per la sua tradizione, deve farla circoncidere: entrambi crediamo, in buona fede, di avere ragione».
E quindi?
«Ci mettiamo seduti e discutiamo. Il calcolo morale è ciò che rende tutto più chiaro e mi fa capire se esista un modo in cui possiamo andare d'accordo o, almeno, ridurre il disaccordo. Anche se a volte è impossibile».
Come si evita il relativismo?
«Quando discutiamo sulla violenza ci sono due principi importanti: la proporzionalità e la discriminazione. Se c'è un atto violento verso di noi e rispondiamo, la risposta deve essere proporzionata. Poi la discriminazione: Bush attaccò l'Iraq in seguito all'11 settembre, col quale però Saddam non aveva nulla a che fare; perciò fu un fallimento, quella che chiamo una guerra ingiusta».
Perché il male è centrale nel suo lavoro?
«Si può dire che gli esseri umani siano cattivi, che siamo violenti e che tutta la vita lo sia; ma anche i batteri, i virus, e tutti i carnivori lo sono... Finché si è vivi, non si può evitare di cibarsi di altre vite, perciò non si può sfuggire alla violenza. Ma la violenza non necessaria è male, questo dico. Che cosa ne pensa?»
Che, di fronte a tanta violenza, uno cerca un senso.
«Sfortunatamente, non credo nel progresso umano e morale: sì, c'è il progresso tecnologico ma, dagli assiri ai khmer rossi, qual è la differenza morale? Siamo ancora afflitti da stupri, schiavitù, omicidi, estorsioni e, in più, stiamo uccidendo noi stessi attraverso il cambiamento climatico».
Ho letto che si definisce un «nichilista costruttivo».
«Gandhi lo sarebbe secondo lei?»
Certo.
«Allora sì, lo sono. Credo, come lui, che dobbiamo andare avanti e cercare di fare del nostro meglio, aiutare noi stessi e gli altri, anche se non crediamo che le cose miglioreranno davvero».
Davvero non usa internet?
«La chiamo la rete del ragno: è piena di ragni, e io non voglio essere mangiato, almeno finché non mi sentirò pronto».
Vive sempre a Sacramento, la città di Joan Didion?
«L'ho incontrata solo una volta, al National Book Award: entrambi avevamo appena perso una persona cara, era molto fragile e triste».
Che legame c'è fra parole e violenza?
«È un tema complicato, tanto più oggi. Io credo nella libertà di pensiero; ovviamente non sono per un incitamento diretto alla violenza, ma credo nel diritto di dire cose anche molto odiose e oscene. Ne sono stato bersaglio io stesso, da parte di persone che si erano sentite ferite, ma credo che la sorveglianza della parola sia criminale».
Questo controllo è realtà?
«Ci viene detto costantemente che possiamo o non possiamo dire certe cose: ebbene, io credo che sia importante non cedere a questo, anche se ne soffriamo. Le faccio un esempio: un anno fa, il New York Times ha deciso di scrivere la b di black maiuscola; ma io penso che uno non debba essere obbligato, che sia una mia scelta, come anche di scrivere la w di white maiuscola o minuscola... Oppure, io ho scritto un romanzo, The Lesbian».
La lesbica.
«In realtà non lo è, è una donna etichettata come tale. E il mio editore mi ha detto che non potevo intitolare il libro così, perché non è lesbica. Trovo ci sia molta ipocrisia. Io credo che le cose debbano essere giuste e uguali per tutti e, se qualcuno offende gli altri, ne debba pagare le conseguenze; ma non mi puoi dire a priori che parole posso o non posso usare. Altrimenti che cosa fai a un poeta? Che ne pensa?»
Che è censura?
«Sì. Molte persone hanno paura di parlare».
Che cosa pensa della cancel culture?
«Per fortuna non uso internet: non la conosco».
Di che cosa ha più paura?
«Del dolore fisico ed emotivo».
La letteratura aiuta, in questo?
«Certo che aiuta».
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