Così Aragon raccontò il ritorno di Napoleone

In "La Settimana Santa" lo scrittore francese ritrae un'epoca con gli occhi del pittore Géricault

Così Aragon raccontò il ritorno di Napoleone

Napoleone Bonaparte è il personaggio storico a cui sono stati dedicati più libri. Saggi, ma anche moltissimi romanzi. Storie che non sempre riguardano direttamente la sua persona, ma si aggirano su un terreno ricco di spunti straordinari, in un periodo della civiltà europea tra i più densi di avvenimenti di sempre. Ma un romanzo, anche biografico, se non ha la pretesa di esattezza scientifica, non è necessario che sia corrispondente alla verità della cronaca; l'importante è che sia autentico.

E autentica è la vena di Louis Aragon, che attorno ai sessant'anni scrisse una storia molto impegnativa, pubblicata nel 1958 e oggi riproposta in libreria: La Settimana Santa (Edizioni Settecolori, pagg. 744, euro 32, trad. di Ettore Capriolo, postfazione di Franco Cardini). Quasi 750 pagine di narrazione svolta nell'arco di una settimana, tra il 20 e il 26 marzo del 1815. Napoleone, interrotto l'esilio all'isola d'Elba, risalì in trionfo la Francia e entrò alle Tuileries all'indomani della Domenica delle Palme, pochi giorni prima di Pasqua. La settimana santa, appunto.

Aragon sceglie di mettersi nei panni di Théodore Géricault, il pittore allora ventitreenne, appassionato di cavalli e di arte militare, che si trova chiamato a risolvere un dilemma morale e a prendere una decisione definitiva: stare dalla parte del tiepido Luigi XVIII, il re spodestato, o da quella del redivivo Napoleone, ora nuovamente osannato dalla maggioranza, compresi quelli che già erano stati suoi detrattori o che addirittura lo avevano tradito.

La fedeltà è il tema principale dell'opera. O meglio, la capacità dell'uomo di esercitarla. In nome dei più alti ideali sociali e civili della Rivoluzione sono stati commessi crimini spropositati. Come può un argomento così vasto non toccare la sensibilità acuta di un giovane romantico qual è il nostro protagonista? Il Géricault che Aragon immagina, in un lavoro di pura fiction, senza mai rinunciare alla verosimiglianza, è un giovane soldato di buona famiglia e dall'innato talento estetico. È, come sappiamo, l'autore di un dipinto che l'anno prima molto ha fatto discutere, il Corazziere ferito che abbandona il campo di battaglia, dove sotto un cielo tempestoso un combattente sconfitto trattiene a malapena il suo cavallo, terrorizzato da una qualche minaccia incombente. Una rappresentazione ben lontana dall'astratta e magniloquente epica napoleonica. Ma così scrive Aragon: «Théodore non crede più in nulla e in nessuno. Era venuto come un soldato che vuole restar fedele al suo giuramento, e intendeva difendere i principi, non che i principi gli siano particolarmente cari, ma il più elementare concetto del dovere gli ha imposto questa linea di condotta. Poi, Napoleone è il Napoleone della disfatta, l'uomo che ha trascinato l'esercito francese nel Paese delle nevi e che ha fatto in Spagna una guerra sporca e vergognosa». Lo stesso che chiedeva agli artisti di raffigurare soltanto lui, e non gli altri generali. Quello che voleva le proprie sembianze trasfigurate in quelle di un eroe o di un dio greco. E invece, ecco che cos'è Géricault (sempre immaginato da Aragon): «Géricault è come un pittore davanti a due quadri, ma ha una gran voglia di gettar via i pennelli perché non sente dentro di sé nulla che lo esalti, e ha nella gola l'amarezza della delusione e dell'inganno. Forse egli è soltanto un giovane del suo tempo, e tutto il fuoco delle sue vene è divampato soltanto nella catastrofe dell'Impero». Del resto è lo stesso che solo tre anni più tardi metterà su tela l'incubo dei naufraghi della Zattera della Medusa.

Su uno sfondo nitidissimo e lussureggiante di particolari e descrizioni, dai dettagli d'abbigliamento alla vita di caserma, dal fumo rancido delle bettole agli arredi minuziosi delle case aristocratiche (per non parlare della precisione toponomastica ed espositiva della Parigi del tempo), lo scrittore francese fa muovere personaggi di pura invenzione e altri realmente esistiti in una girandola a tratti vorticosa, e a momenti statica come una trottola inchiodata. Sembra che tutto stia per accadere senza che nulla accada. La vicenda si dilunga in un tempo sospeso, carico di riflessioni. Siamo lontani dall'avanguardia poetica surrealista e dadaista a cui Aragon aveva dato vita insieme ad André Breton, Paul Éluard e Guillaume Apollinaire. Ma in mezzo c'è stata l'adesione al comunismo come ideale di vita, e non a caso il giovane Théodore è attratto a un certo momento dagli uomini «quali sono, soldati, per esempio, con i loro occhi ingenui e le loro idee elementari sulla vita. O carrettieri, o mendicanti. Ma pensava anche che questa gente assomigliasse ai santi più dei borghesi e dei principi». In altre parole, «scopriva l'esistenza del popolo».

Pregio del libro, come molto opportunamente rileva Franco Cardini nella postfazione, è il rispetto della regola del romanzo storico. La finzione non è mai in conflitto con il possibile. Tornano in mente i grandi classici storici ambientati all'epoca, con le loro figure di riferimento automaticamente accostabili a Théodore, Pierre Bezuchov di Guerra e pace e Fabrizio del Dongo de La certosa di Parma.

E quando Cardini dice che «qua e là si ha l'impressione di leggere un romanzo di Hugo trascritto da Dumas» il pensiero corre ovviamente a I miserabili e a Il conte di Montecristo, che non a caso si svolgono proprio a ridosso degli anni della Restaurazione. E che preludono, alla luce della consapevolezza postuma dei loro autori, al suo fallimento.

Commovente il breve ritratto che di Aragon fa Cardini, ricordando un loro incontro alla fine degli anni Settanta. Lo scrittore francese era vecchio e debole. Ospite di una ruspante manifestazione comunista in una qualche provincia toscana, sembrava smarrito dall'atmosfera rétro e dalla circostanza casereccia. Anche lui si stava lasciando dietro un'epoca.

L'autore di poesie struggenti dedicate all'amata Elsa Triolet, alcune delle quali messe in musica da celebri cantautori suoi connazionali come Léo Ferret e Jean Ferrat, sembrava vivere ormai del vago ricordo di antiche battaglie ideologiche. Forse anche lui disincantato.

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