Su George Orwell, se ne leggono di tutti i colori. Qualche anno fa, capitò una introduzione a 1984, il più violento atto d'accusa al comunismo sovietico mai scritto, in cui si diceva che il romanzo era un'opera sul «fascismo» del «totalitarismo russo e altri totalitarismi recenti». Una definizione così fuorviante da sembrare un involontario esempio della «neolingua» che, nel romanzo di Orwell, il regime utilizza per stabilire la verità a piacimento. Poco prima era uscita una edizione della Fattoria degli animali in cui mancavano le parole «comunista», «socialista», «Stalin», «stalinismo». Si discettava invece di «concetto utopistico di uguaglianza» e di «classe di burocrati» che, nella spaventosa fiaba di Orwell, sarebbero i maiali, tiranni delle bestie più docili. Conclusione, La fattoria degli animali era una «acuta satira contro il totalitarismo». In generale. Peccato sia stato Orwell stesso a scrivere nella prefazione all'edizione ucraina del 1947: «Era della massima importanza per me che gli europei vedessero il regime sovietico per quello che è. A partire dal 1930 non ho trovato prove che l'Unione Sovietica facesse progressi lungo la via che conduce al vero socialismo. Al contrario, ero sbalordito dai chiari segni della sua trasformazione in una società gerarchica».
Per capire quanto 1984 fosse legato allo stalinismo, con l'intento di farlo a pezzi, basta leggere la recensione lapidaria che ne fece la Pravda del 12 maggio 1950: «Il sordido libro di Orwell», dice il critico, è perfettamente in linea con la politica ispiratrice «della propaganda americana». Orwell, «anima venale», ha agito «per ordine e istigazione di Wall Street». Il suo romanzo è da annoverarsi tra i «veri e propri attacchi ai popoli di tutto il mondo». Meglio ignorare il «veleno delle sue infamie».
La stroncatura si può leggere ora nel volume Il peggiore dei mondi possibili, una antologia che contiene tutto l'Orwell indispensabile: Fiorirà l'aspidistra, Omaggio alla Catalogna, Una boccata d'aria, La fattoria degli animali, 1984 (Mondadori, Oscar Draghi, pagg. 932, euro 25). Un'infilata di capolavori, pubblicati tra il 1936 e il 1949, che mozza il fiato per varietà, inventiva, intelligenza e capacità di mettere in prospettiva (universale) i fatti storici (contingenti). Se leggerete un'opera dopo l'altra, emergeranno gli aspetti messi in ombra dal talento divinatorio di Orwell in campo politico. Ad esempio, l'osservatore dall'occhio sociologico di Fiorirà l'aspidistra, un ritratto della ristrettezza di vedute della proletariato inglese, abbruttito dalla miseria. Emerge anche quanto 1984 sia, prima di ogni altra cosa, un elogio disperato dell'amore soprattutto fisico; l'unica forza che spinge gli uomini alla ribellione contro la grigia vita programmata dal Potere. Il bersaglio di 1984 è indiscutibilmente il socialismo reale ma il genio di Orwell coglie l'eterno nel contingente, la legge nell'avvenimento. Per questo, pochi mesi fa, Michel Onfray, dopo aver definito in termini orwelliani le regole della tirannia, ha scoperto, in modo purtroppo convincente, che già le applichiamo. Quali regole? Apriamo Teoria della dittatura (Ponte alle Grazie). Primo. Distruggere la libertà attraverso la sorveglianza continua. Secondo. Impoverire la lingua. Si distruggono le parole e si eliminano i classici. Terzo. Abolire la verità e sostituirla con la propaganda. Quarto. Sopprimere la storia e riscriverla con gli occhi dell'ideologia corrente. Quinto. Negare la natura. Si umilia la voglia di vivere, si impongono norme igieniche sproporzionate, si programma la frustrazione sessuale. Sesto. Propagare l'odio. Qui occorre un nemico che giustifichi misure d'emergenza e allontani l'attenzione dalle responsabilità di chi governa. Settimo. Aspirare all'Impero, cioè gestire l'opposizione, governare assieme alla classe dirigente, indottrinare i bambini. Ricorda qualcosa che avete visto di recente?
Torniamo a Orwell. Questa mega-antologia, meno di un Meridiano ma più di una serie di tascabili, è resa imperdibile dagli apparati: le recensioni d'epoca ai singoli libri, tra cui quella citata della Pravda; e la stupefacente lettera, qui in nuova traduzione, dello stesso Orwell che introduce il volume. È datata 18 maggio 1944 e indirizzata a Noel Willmett, lettore scettico sull'eventualità che totalitarismo e culto della personalità possano prendere piede anche in Inghilterra. La risposta è un trattato in 120 righe tipografiche (lunghezza, per intenderci, dell'articolo che state leggendo).
Orwell parte in quarta: «Tutti i movimenti nazionali, ovunque, persino quelli che nascono dalla resistenza alla dominazione tedesca, sembrano assumere forme non democratiche raccogliendosi intorno a Führer superomistici (variamente rappresentati da Hitler, Stalin, Salazar, Franco, Gandhi, De Valera) e far propria la teoria che il fine giustifica i mezzi». Si può obiettare sui singoli nomi, ma chi può dire, meglio di noi italiani, quanta ragione avesse lo scrittore inglese? Noi italiani che abbiamo avuto in parte (la parte culturalmente egemone) una Resistenza antifascista ma non anticomunista, dunque illiberale, per giunta guidata dal Pci filo-sovietico, raccolto intorno al culto del Migliore, Palmiro Togliatti.
Seconda bordata: «Ovunque il mondo sembra andare nella direzione di un'economia centralizzata, che può funzionare" in senso economico ma non è organizzata democraticamente e tende a istituire un sistema di caste». Alla lunga non funziona, oggi lo sappiamo (forse non tutti) ma chi può obiettare non solo che sia finita così ma che la centralizzazione, tanto amata dalle caste di politici e burocrati, sia la palla al piede di questo Paese? Al socialista rivoluzionario George Orwell, non sfuggiva il legame tra libertà economica e libertà tout court. Ai nostri politici invece sfugge da sempre, i risultati possiamo misurarli alla perfezione in questi mesi drammatici, trascorsi a fronteggiare una crisi epocale con le casse vuote, nonostante le tasse esorbitanti, e con ministri-burocrati-tecnici-esperti da cabaret.
Terza bordata: «La Storia ha già cessato di esistere, ovvero non esiste una Storia dei tempi in cui viviamo che potrebbe essere universalmente accettata» e perfino «le scienze esatte» saranno in discussione. La verità oggettiva non c'è più. Al suo posto, d'ora in avanti, dice Orwell, avremo soltanto propaganda: i fatti dovranno accordarsi con le profezie «infallibili» dei politici. Ecco, bastano dieci righe di Orwell per accorgersi quanto sia rasoterra l'attuale dibattito sulle cosiddette fake news. Purtroppo entrare nel merito di una notizia è utile ma non intacca il problema, che è tutto culturale: il nesso tra relativismo e propaganda.
Che fare, dunque? Orwell era convinto che alla fine l'Inghilterra fosse l'unico baluardo. L'imperialismo britannico era detestabile, nessuno lo sapeva meglio di lui, nato nel Bengala e vissuto in Birmania, ma era il male minore. Gli inglesi non avrebbero mai accettato di perdere le libertà individuali. Non tutti, però. I traditori erano già all'opera.
Si chiamavano intellettuali: «La maggior parte di loro è prontissima ad ammettere metodi dittatoriali, polizia segreta, falsificazione sistematica della storia». Anche questo è un film che abbiamo visto. In Italia, è proiettato in replica da decenni.
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