Di lui Alessandro Manzoni disse che era «nato seducente». In effetti e lo dimostrano i tanti ritratti che ci sono rimasti a cominciare da quello celebre di Francesco Hayez Massimo Taparelli d'Azeglio (1798-1866) era di bell'aspetto e di nobili tratti. Alto e snello, biondo di capigliatura, aveva fronte spaziosa, sguardo intenso e ironico, e portava un bel paio di baffi cespugliosi ma ben curati. Era anche un gaudente e un «buon compagnone», almeno a detta del suo amico Giuseppe Montanelli, il quale precisò ch'era pure un «farfallone amoroso» e un uomo che sapeva «far di tutto, il libro e il quadro, la strimpellata e la cantatina».
Appartenente a un'antica famiglia aristocratica piemontese, era stato destinato dal padre alla carriera militare, ma aveva preferito dedicarsi alla pittura e alla letteratura con risultati apprezzabili, come dimostra il successo dei romanzi storici, Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta (1833) e Niccolò dei Lapi (1841), per non dire, ovviamente, del celeberrimo memoriale I miei ricordi, pubblicato postumo nel 1867. Soprattutto, però, egli aveva viaggiato moltissimo e soggiornato, per esempio, a Firenze, a Roma e a Milano acquisendo una conoscenza diretta, di gran lunga superiore a quella che avevano esponenti della classe politica e intellettuale piemontese, di quei territori.
Il suo interesse per la politica, all'inizio marginale se non addirittura inesistente, cominciò a maturare attorno alla metà degli anni quaranta quando, sollecitato da amici liberali, fece un viaggio in Romagna con il proposito di attrarre i rivoluzionari verso posizioni moderate e spingerli a guardare con fiducia verso Carlo Alberto e la monarchia sabauda. In realtà, a differenza di tanti giovani nobili del tempo, egli aveva sempre diffidato delle suggestioni rivoluzionarie e settarie, non aveva mai amato Mazzini e il suo messianismo politico.
Dopo il fallimento dei moti delle legazioni pontificie delle Romagne sedati senza difficoltà dalle truppe del Papa, d'Azeglio scrisse il saggio Degli ultimi casi di Romagna (1846), che, dedicato a Cesare Balbo, fu quasi una specie di manifesto programmatico dei moderati italiani: esso, oltre a denunciare la velleitarietà delle iniziative insurrezionali, indicava la via dell'impegno civile e delle riforme non escludendo la prospettiva di una soluzione militare del problema italiano da parte del Regno sabaudo.
Insieme al cugino Cesare Balbo e ad esponenti del patriziato e della borghesia liberale, d'Azeglio animò, così, la corrente politica del «moderatismo». Questa, ebbe il merito di separare il moto nazionale dalla prospettiva repubblicana e mazziniana, in primo luogo, grazie all'idea di una confederazione di Stati indipendenti e costituzionali sotto la leadership piemontese e, in secondo luogo, grazie all'ipotesi di una guerra contro l'Austria sotto la guida sabauda.
Una volta colpito dalla passione politica, d'Azeglio non se ne liberò più e svolse una intensa attività che lo vide, fra l'altro, presidente del Consiglio e mentore di due sovrani, Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II, oltre che mediatore in Parlamento e incaricato di missioni diplomatiche importanti. Un grande studioso del Risorgimento, Alberto M. Ghisalberti, lo definì con una efficace locuzione «un moderato realizzatore», mentre Giovanni Spadolini, inserendolo tra gli uomini che fecero l'Italia, lo presentò come «un mito, il simbolo di un'età eroica di purezze e di audacie, il cavaliere senza macchia e senza paura, il rappresentante perfetto della morale laica, nazionale e borghese, fondamento principale dello Stato unitario».
La personalità e l'opera politica (ma anche letteraria e artistica) dell'autore del più celebre libro memorialistico del Risorgimento, I miei ricordi, emerge dall'imponente epistolario che Massimo d'Azeglio intrattenne con centinaia di corrispondenti e che è stato ora pubblicato integralmente dal Centro Studi Piemontesi a cura di Georges Virlogeux, un italianista francese dell'Università di Aix-en-Provence: un'operazione editoriale meritoria e monumentale, iniziata 40 anni or sono e conclusa solo oggi con la pubblicazione dell'ultimo volume. Si tratta, complessivamente, di dodici grandi tomi, che presentano annotate oltre 2mila lettere a circa 600 destinatari.
D'Azeglio non era favorevole alla pubblicazione, lui in vita, di proprie lettere perché riteneva che la sua schiettezza potesse essere politicamente controproducente. Tuttavia l'idea di raccogliere l'epistolario fu accarezzata dai suoi discendenti già all'indomani della sua morte, venne ripresa e raccomandata più volte dagli storici ma fu sempre abbandonata per la difficoltà dell'impresa. Stralci di corrispondenze di d'Azeglio, peraltro in molti casi mutila o ritoccata per motivi di opportunità, apparvero in diversi volumi e opuscoli, ma soltanto ora, con un lavoro ultradecennale e con una eccezionale acribia filologica, l'opera è stata finalmente portata a termine.
In questi 12 volumi c'è tutto d'Azeglio, uomo, artista e politico. C'è, per esempio, il gusto della battuta irriverente che gli fa definire in una lettera alla figlia, il Principato di Monaco «una monarchia assoluta ereditaria, temperata dalla bolletta del monarca» (17 agosto 1855). C'è, persino, dopo la conclusione della Prima guerra di indipendenza, qualche considerazione amara su Carlo Alberto: il 10 marzo 1849, infatti, scriveva a Roberto d'Azeglio: «Il povero Re ha avuto disgrazia davvero, non poter morire! Certo ci ha rovinati, ma pure non mi sento stizza con lui, anzi mi fa male a figurarmelo solo e ramingo»; e, poco dopo, il 23 aprile, poi, scrivendo ad una amica nobildonna, si esprimeva in questi termini: «Lui è a Oporto e noi siamo nei guai siamo rovinato senza rimedio, come doveva accadere essendo in mano di birbi e di imbecilli». Anche il rapporto non sempre facile, anzi spesso conflittuale e burrascoso con Camillo Cavour fin dai tempi del «connubio», appare in tutta evidenza: non garbavano a d'Azeglio, come scrisse a un amico il 9 giugno 1855, «le numerose scoperte d'uomini grandi, che ha fatto Cavour nelle regioni del centro sinistro». La verità è che i due uomini, l'autore di I miei ricordi e «barba Camillo», erano troppo diversi perché al moralismo rigido dell'uno corrispondeva il pragmatismo duttile dell'altro.
Massimo d'Azeglio, l'uomo che coniò l'espressione «Re Galantuomo» riferita a Vittorio Emanuele II e che scrisse, nella prefazione a I miei ricordi, la celebre frase «sì è fatta l'Italia ma non si fanno gl'italiani», malgrado certe sue pessimistiche previsioni, era un ottimista sul futuro del Paese. E lo dimostra una deliziosa canzoncina ch'egli compose e inviò a Federico Sclopis il 21 giugno 1864, accompagnandola con queste parole: «caro mio vecchio amico, l'Italia è nata di poco, e, come gli altri bambini ha da passare il lattime. E poi la dentizione, e poi il vajolo, e poi la rosolia e via discorrendo; dunque è inutile tormentarsi, noi siamo nati troppo presto per veder la bambina grand'e grossa e poter godere d'una bella compagnia. Che farci? Così è. Amen».
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, la bambina Italia non è cresciuta (o, forse, è cresciuta male) e gli italiani non sono ancora diventati adulti. Per questo è auspicabile un ritorno a d'Azeglio, con un viaggio che può cominciare proprio dalla lettura delle sue missive.
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