"Difendiamo i nostri giovani sacrificati al culto del mondo"

Nella pièce "Agnello di Dio" lo scrittore mette in scena il confronto fra un diciottenne, suo padre e la sua preside

I figli: che cosa vogliono? I padri: che cosa possono? Le domande paiono le stesse, di generazione in generazione, ma il mondo si trasforma e con esso desideri e soddisfazione. Daniele Mencarelli prova a fermare questo tempo, il nostro - in cui stereotipi reali e digitali offuscano la vista delle verità più intime - e a spingere un padre e un figlio a guardarsi negli occhi e a scoprire intensità e dolore della sincerità. Lo fa con un linguaggio che sperimenta per la prima volta, quello della drammaturgia, e compone un testo teatrale che andrà in scena, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano e diretto da Piero Maccarinelli, in prima nazionale il 26 aprile (e fino all'8 maggio) al Teatro Sant'Afra di Brescia.

Classe 1974, romano, pluripremiato poeta - tra i temi delle sue raccolte la malattia infantile, la passione di Cristo, il Natale - e narratore, già vincitore del Premio Strega Giovani 2020 con il romanzo Tutto chiede salvezza e autore lo scorso anno di Sempre tornare (entrambi Mondadori), Mencarelli mette il diciottenne Samuele e suo padre Marco al cospetto della preside Suor Lucia: Samuele ha scritto in un tema che vorrebbe buttare alle fiamme tutto quello in cui gli han fatto credere e festeggiare così la propria liberazione. Le reazioni del padre e della religiosa ci daranno la ragione di questa furia.

Mencarelli, qual è il fuoco che alimenta questo dramma?

«Il dialogo tra generazioni, che parte quasi sempre con l'assunto di fondo vecchio quanto il mondo che le nuove generazioni siano più scorrette, desolate e povere rispetto a quelle che le hanno precedute. Un'affermazione profondamente falsa».

Il ragazzo sembra sotto processo...

«Nell'aula di presidenza di un liceo paritario due adulti si ritrovano a dialogare con un maggiorenne sul presunto malessere dedotto da un tema: la situazione pare molto ordinaria, ma in quel malessere c'è tanto di umano. Suora e padre, pur vestendo abiti diversi, non sapranno come intercettare quell'umanità. Che è ferita, dolorante e chiede di essere ascoltata alla pari e non purgata. Anche perché non c'è niente da guarire».

Si arriverà al conflitto estremo.

«Il dialogo va avanti fino a quando non vengono sfiorate corde molto delicate, che faranno esplodere tutte le convinzioni che i due adulti spacciano per maturità o per buona educazione. Usciranno scheletri dagli armadi, come spesso accade agli adulti, e non ci sarà vincitore e vinto, ma una situazione che scuoterà l'animo dei tre senza portare avanti la qualità delle relazioni».

La prima strada che il padre e la suora tentano per evitare l'esplosione è quella della semplificazione.

«Affibbiano vestiti e ruoli tipici di quest'epoca che in teoria dovrebbero, per il solo fatto di essere scoperti, aiutare a risolvere la questione. Si comincia con il malessere di natura ideologica: forse Samuele scrive così perché ha incontrato ragazzi di estrema destra che lo hanno fuorviato. Ma a lui della politica istituzionale non importa nulla. Il secondo tentativo nasce sotto casa: vivono in periferia e lì si spaccia cocaina. Ma Samuele ha addirittura paura delle sostanze. Fino alla chiave di lettura legata alla sessualità: per cui se oggi un giovane deve fare coming out non c'è problema».

Però questo diciottenne sfugge a tutte le etichette.

«Più che altro vuole entrare nei temi che compongono il suo altrove interiore: la morte, Dio. Sono vuoti da colmare e ragionarci dovrebbe essere normale, mentre le spiegazioni date dagli adulti sono sempre le meno naturali, umane e semplici. Samuele li accusa di essere ordinari come se avessero già vissuto mille volte, imprigionati dentro sé stessi».

Si giocano anche la carta della malattia.

«L'ultima fase: il disturbo psicologico, il periodo di fatica che porta alla depressione, l'ansia che ha preso il sopravvento. Ma non funziona: il ragazzo sta chiedendo altro».

L'approccio drammaturgico è anche filosofico: Marco, il padre di Samuele, che cosa incarna?

«Il mondo nella sua declinazione più economica, legata al profitto, competitiva. Su temi profondi si confessa più figlio del figlio».

E la suora?

«La sua incapacità a ragionare è ancora più paradossale, visto che certi argomenti dovrebbe comprenderli per statuto, per contratto. Ma su quegli affondi la preside ha costruito un potere che è antitetico al viverli. Il ragazzo afferma che ogni giornata deve essere una avventura che si è disposti a seguire, Suor Lucia replica che così vivono i barboni: Samuele provoca rispondendo che così vivevano, invece, gli apostoli».

Perché questo titolo, Agnello di Dio?

«Ogni generazione è una meravigliosa opportunità sacrificata al culto del mondo: i nuovi nascituri sono un prato incolto che potremmo nutrire mettendo nuovi stili di vita a disposizione. Invece li riportiamo sempre nel grande solco della tradizione umana, come per i giovanissimi profughi in fuga dalla guerra in Ucraina: agnelli sacrificali di un potere che il più delle volte ha una forma macellaia rispetto al bene e all'uomo».

Ai formatori oggi viene chiesto di andare in direzione opposta a quella chiesta da Samuele: non conoscere nulla dei propri allievi, perché possano risultare tutti uguali, indistinti, corretti.

«Mi hanno raccontato che negli Stati Uniti ai professori delle università è vietato chiedere ai propri studenti da dove vengono, quale lavoro fanno i loro genitori... Ma come faccio a inquadrare un'altra persona se non accogliendola come luogo umano e come contesto, rischiando così di non metterla mai a fuoco? È un periodo di follia rispetto al tema dell'origine».

Che invece rimane fondativo del futuro possibile.

«L'uomo è dotato di due grandi categorie generative: un'origine che malgrado tutto riesce a essere

benigna e ha un segno positivo per staccare da sé l'originato. E poi quella terribile, in cui, come scrivo in una poesia, anche un dio è divorato dalla sua stessa origine. Basta guardare a Maradona, per fare un esempio».

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