Sia lodata l'irriverenza, quando è frutto di aristocrazia dello spirito e della più assoluta libertà di giudizio. Come nel caso di Henry de Montherlant (1895-1972) in un prezioso libretto, Contro Don Chisciotte (De Piante editore, pagg. 40, euro 20; introduzione di Stenio Solinas, traduzione di Ulisse Jacomuzzi): di fronte a un classico, a un monumento, bisogna guardarsi dalla denigrazione e, forse ancora più dall'eccesso di rispetto. La denigrazione è lo spumante dei giornalisti, il rispetto il pane dei professori (diciamolo, i primi se la passano meglio dei secondi ), ma nessuno dei due atteggiamenti è quello giusto.
Giusto è invece uno sguardo irriverente, cioè privo di soggezione e di preconcetti, capace di pronunciarsi in maniera equanime e senza paura su opere ritenute intoccabili. Montherlant - in una prefazione del 1961 per un'edizione francese del grande romanzo spagnolo - applica un simile sguardo al Don Chisciotte di Cervantes: ne riconosce i pregi, non ne nasconde i difetti, e mica piccoli: logorrea, mancanza di verità umana, inverosimiglianza E accusa Cervantes, il coraggioso combattente di Lepanto, di non aver avuto il coraggio di dire quanto aveva ragione Don Chisciotte a opporsi ai vessilliferi della volgarità e della mediocrità in nome del sogno. Don Chisciotte è il patrono dei disadattati ma anche degli utopisti generosi, come ben vide Turgeniev quando lo oppose al dubitante e nichilista Amleto. L'irriverenza letteraria ha una storia antica: Orazio osò scrivere che «quandoque bonus dormitat Homerus», insomma, il buon Omero a volte sonnecchia. Omero, capite? E se sonnecchia lui, figuratevi in che sonni profondi possono cadere gli altri. Voltaire dette una proverbiale definizione di Shakespeare, «un barbaro non privo di ingegno». L'ormai settantenne Tolstoi denunciò zone d'ombra in Goethe, Shakespeare e persino in Dante.
Ai nostri tempi l'irriverenza, come la libertà di giudizio, latita. Si passa dall'accettazione aprioristica di un canone, o di una moda, alla demolizione generica di tutta la tradizione nel fenomeno mai abbastanza irriso della cancel culture. Chi avrà il coraggio di dire un basta sprezzante alle imbecillità che arrivano dalle università americane? E chi di affermare che la triade Proust, Joyce, Kafka non è un dogma come la Santissima Trinità? Chi oserà notare che Philip Roth è grande nel Lamento di Portnoy, ma modesto e un po' lugubre nei suoi ultimi libri? Quanto mi sono divertito, io goethiano da sempre, quando ho conosciuto Stephen Vizinczey e ho letto il suo attacco canagliesco a Goethe in I dieci comandamenti di uno scrittore.
E quanto mi diverto ancora a rileggere Max e i fagociti bianchi dove Henry Miller definisce «universo della morte» il canone novecentesco, che darebbe tutto per una sola pagina di Rimbaud! L'irriverenza è sempre benvenuta. E ora, ci sarà da rileggere Don Chisciotte e vedere quanto l'aristocratico, anarchico, eroico lottatore Montherlant aveva ragione scrivendo queste pagine «contro».
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