Tutto inizia e finisce con l'azzardo. Tra gli spari del giovane junker, in Caucaso, nel 1852, e la fuga, letale come un proiettile in fronte, in quel palustre autunno del 1910, non c'è differenza di gittata né di cronologia, è sempre la stessa ansia, la stessa inquietudine, la stessa dissipazione che logora il grande Lev Tolstoj.
Tutto va sarchiato e giustificato nell'azzardo. Infine, fu l'uomo che voleva azzannare Dio o scartare dalle sue zanne. Al principio, era un energico conte di 22 anni che voleva giocarsi la vita sul campo di battaglia, al tavolo da gioco, nel gorgo dei bordelli. Sorbiva il mondo, lo eccitava l'impresa militare, traduceva Laurence Sterne, era in estro per Rousseau.
Per garantirsi un reddito, vende il palazzo di Jàsnaja; gli offrono 5mila rubli, ne perderà 3400 in una notte, giocando, durante una missione a Pietroburgo perché tutto va vagliato dal fato.
Lev Tolstoj ha bisogno dell'azione e della contraddizione: quando invia il manoscritto di Infanzia a Nikolaj Nekrasov, zar della letteratura russa dell'epoca, direttore della rivista Sovremennik, allega un biglietto. «Guardate questo manoscritto e, se non è adatto alla pubblicazione, restituitemelo desidero che sia pubblicato senza aggiunte né modifiche». Mesi dopo, quando i salotti letterari gareggiavano nell'omaggiare la nuova star del romanzo, un po' tutti furono indispettiti del carattere volgare, rozzo, selvatico di Lev.
Amava irrompere tra quei damerini con la divisa militare: fronte ampia, sguardo feroce, parole schiette. Schifava il regno di cristallo della letteratura, si sentiva fuori posto. Nel corpo poderoso di Tolstoj vagava un ago d'argento, che lo colpiva, tormentandolo, di continuo. Prima di Sebastopoli, ci fu il Caucaso, il Daghestan, la Cecenia. Poi Bucarest, la Valacchia, la Bessarabia, la Moldavia. Tolstoj chiede alla vita di predarlo, di perderlo. «Come sono finito qui? Non lo so. Perché? Non so neanche questo», appunta sul diario. Il 24 marzo del 1853, la trojka su cui viaggia il conte si perde in una tormenta di neve. È uno degli eventi capitali nella vita di Tolstoj, un segno, come la crisi accaduta nella stazione di posta di Arzamas, nel 1869. La stessa angoscia, la stessa carnale percezione del vuoto, del nulla. «L'avanzare così nella tormenta, senza sapere dove, sperando che compaia una via a salvarti: non è soltanto un incubo divenuto d'un tratto reale; è come un senso, una categoria dell'esistenza» (così Igor Sibaldi in Album Tolstoj, Mondadori, 1994).
Nekrasov, intanto, esulta: dopo aver scoperto Dostoevskij, dall'epoca di Povera gente, si fa vanto di pubblicare il nuovo genio della letteratura russa. Tra il 1852 e il 1854 escono Infanzia e Adolescenza, due anni dopo Tolstoj termina il ciclo autobiografico con Giovinezza (i tre volumi sono raccolti in uno da Quodlibet, pagg. 496, euro 18). Sono, semplicemente, le fasi preparatorie di una scrittura assoluta. Un azzardo. Eppure, in sketch di clamorosa vitalità Tolstoj non si legge, si annusa, si accarezza, si afferra: i suoi libri sono come piccole tigri ci sono i temi dei romanzi immortali.
L'ossessione per la morte «Dimenticavo che quel corpo morto, che giaceva davanti a me era lei. Io me lo figuravo ora in questo ora in quell'atteggiamento vivente, allegra, sorridente; poi, a un tratto, mi colpiva una qualunque delle fattezze del pallido viso, sul quale si fermavano i miei occhi; mi ricordavo l'orrenda realtà» , per la fuga dal mondo (nel ritratto, in Infanzia, di Gria, «jurodivyj e pellegrino. Di dove era? Chi erano i suoi genitori? Che cosa lo aveva portato a scegliere la vita vagabonda che conduceva? Nessuno lo sapeva»). Ma Tolstoj, l'uomo dell'azzardo, è soprattutto uno scrittore che non ha pace. Capisce che la letteratura, più che la carriera militare, è la sua via; eppure, disprezza i club dei letterati, le malizie editoriali, i vaghi appelli sociali dell'intellighenzia.
Ama «il fascino costante del pericolo, le osservazioni che compio sui soldati coi quali vivo» (1855). Insieme alla trilogia biografica straordinariamente indocile arrivano i Racconti di Sebastopoli e La tormenta, il racconto in cui rievoca quella notte in cui si è perduto nella neve.
Parigi lo inorridisce bellezza, ghirlande e la ghigliottina al fianco dei teatri e dei locali che eruttano belle donne. Sul diario ruggisce, «Le leggi politiche sono orribili menzogne, non mi metterò mai e in nessun luogo al servizio di un qualunque governo». Si trasferisce in campagna, pieno di idee progressiste: ma la distanza tra sé e i muziki è sconfortante. Disprezza chi uccide come chi ha ambizioni letterarie; in fondo, cercherà per tutta la vita di ammazzarsi.
«In un certo periodo della giovinezza, dopo molti errori e infatuazioni, ogni uomo di solito si trova nella necessità di prendere parte attiva alla vita sociale, si sceglie qualche ramo di lavoro e vi si dedica», scriveva in Giovinezza. Tolstoj, invece, continuò a praticare l'azzardo, a spaiare le carte, ad amare disordinatamente. L'ultima opera di genio, Chadzi-Murat, pubblicata postuma nel 1912, è un omaggio ai ribelli, agli impavidi guerriglieri ceceni.
È un racconto eccelso, pieno di luce e di leggenda. Senza alcuna nostalgia, con infallibile, omerica compassione, Tolstoj rievoca gli anni in cui era uno junker, nel Caucaso, deciso a fare della giovinezza, dei suoi assalti, la sola teologia.
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