Fumé, privé, start up e tip tap. Il perfetto "selfie" made man

A parte i balletti, nessuno ha ancora capito cosa faccia, neanche lui. Imprenditore, influencer, genio o ingenuo?

Fumé, privé, start up e tip tap. Il perfetto "selfie" made man

Nessuno ha ancora capito esattamente cosa faccia Gianluca Vacchi. Neanche lui.

Comunque, Vacchi ha sempre avuto il pallino degli affari. A sedici anni il padre gli consegnò mezzo milione delle vecchie lire, con il quale Gianluca comprò tre Moncler usati, che rivendette a un milione. Quindi investì il nuovo capitale per comperare cinque paia di Timberland, che rivendette a due milioni, somma subito messa a frutto in sei giubbotti Americanino, che gli fruttarono tre milioni! A questo punto, verso i 35 anni di età, quando stava per lanciarsi nella vendita di T-shirt e bigiotteria su Internet, improvvisamente, grazie a una congiuntura favorevole del mercato, ereditò 400 milioni in azioni dell'azienda del padre. Da qui la celebre frase «Tutto quello che ho, me lo sono costruito da solo».

Egolatria, tendenza a essere sempre di tendenza, la convinzione di essere stato il primo a portare la musica latina a Ibiza, e voyeurismo social. Un perfetto come si dice - «selfie» made man. Mettiti in posa, Gianluca: sorridi, fermo così: #EnjoyStoCazzo.

A noi, comunque, Gianluca Vacchi non sta antipatico. Che colpe ha? Non è lui, ma l'intero sistema che vorremmo abbattere: le startup del tip tap, i balletti da epilettico, l'ibernazione, le holding di famiglia, nomi come Sharon o Blu Jerusalema, le cyclette di lusso, che già ci fanno schifo i monopattini del Comune di Milano, gli storytelling digitali, il lifestyle, i privé, gli occhiali fumé l'inabissamento della civiltà l'idea bizzarra che si possa confondere un influencer con un manager, e viceversa, ma soprattutto l'accettare nell'indifferenza morale più assoluta che un curriculum vitae puntellato da termini come «pignoramenti», «liquidazioni», «svalutata», «bancarotta fraudolenta» e «distrazione patrimoniale» possa coniugarsi a una vita milionaria. Se si deve fallire - mi insegnava una vecchia zia di Busto Arsizio che non aveva fatto Economia commercio ma leggeva il Tramonto dell'Occidente di Spengler - meglio farlo in grande. Il nuovo settore di investimento di Vacchi è una catena di kebab. Il gradino immediatamente precedente i Compro Oro. Dopo, c'è solo l'illegalità.

Se rinasco, rinasco tatuato come un Mentawai dell'isola indonesiana di Siberut, chiamo mio figlio Blue Gerico Rosa Shocking, tutto maiuscolo, mi faccio cifrare le pochette e apro una catena di social media operator attivo nelle Tlc e proiettato verso le Blockchain. Qualsiasi cosa voglia dire. Criogenesi e criptovalute. L'importante è farsi liquidare dai cugini con cinque milioni di euro l'anno per tenerti lontano dall'azienda di famiglia. «Enjoy 'sta cippa di minchi*». Con l'asterisco. Der Abendlandes ist bereits untergegangen. L'Occidente è già tramontato.

TikTok, chi è? Quarantasette milioni di follower fra Instagram, Facebook, Twitter, twerking e tutto ciò che resta dei social, platee incontentabili che ogni giorno pretendono una coreografia diversa dello stesso balletto. Prima regola della vita: capire quando la gente ride con te, e quando ride di te. «Spingo chi mi segue a essere ironico, trasversale, a ridere», ripete Vacchi. Sull'ultimo punto, ci è riuscito.

Erede della multinazionale bolognese Ima, leader mondiale del packaging, Gianluca Vacchi uno abituato a tarare gli storytelling di se stesso in metri quadri calcolati sulla location Cap Ferrat è un maestro nell'infiocchettare il nulla. «Ho pensato che, mostrando la mia vita, potevo essere d'ispirazione per qualcuno». È successo molto peggio. Ha dimostrato che i soldi danno la felicità. Purtroppo. Siamo tutti dei Gianluca Vacchi che non ce l'hanno fatta.

Domanda. Ma gente come Vacchi, cosa faceva prima dell'arrivo dei social?

Incubi ricorrenti. Vacchi che balla in piscina, Vacchi che balla in cucina, Vacchi che balla in barca, Vacchi che sponsorizza una marca, Vacchi che balla in costume, che balla in pigiama, che balla in smoking, Vacchi che balla con gli amici, con la sua crew, con la moglie, con la figlia, coi cani, da solo come un cane perché nessuno lo sopporta più, Vacchi che balla con gli slip, Vacchi che balla con un vip, Vacchi che balla con i domestici filippini, ai quali spirito imprenditoriale e senso per il business - ha deciso di aumentare lo stipendio per permettere loro di pagare le multe che gli infligge quando sbagliano i tempi dei balletti. Da cui la maledizione: «Ti auguro di essere un filippino e lavorare per Gianluca Vacchi».

Vi ricordate quando era il 2016 - il gioco dell'estate divenne quello di citofonare alla villa in Sardegna di Vacchi e, se rispondeva qualcuno, urlare «Enjoy 'sto cazzo...»? Vorremmo che quell'estate non finisse mai.

A parte che poi la villa l'ha anche cambiata. Ne sta costruendo un'altra, ancora più mega, si chiamerà «Blu Jerusalema», come la figlia: 1.200 mq più mille di terrazze, un campo da calcetto, discoteca, due lodge con suite, 15 camere, lavori per 15 milioni di euro. «Spero di vivere abbastanza per vedere mia figlia capire i privilegi che ha». Consigliamo la visione dell'episodio «L'educazione sentimentale» del film I mostri. Ovviamente Dino Risi aveva già capito tutto.

Padrone di tutto per non godere davvero di niente, adulto mai cresciuto e bambino che si ostina a vivere da grande Non è un Paese per Vacchi vera pop star del lifestyle, 54 anni, più tatuaggi che post, una moglie venezuelana, una figlia, tre cani, un Imu equivalente al catasto Teresiano e del Lombardo-Veneto, la zipline privata più lunga d'Europa (ma che cazzo è una zipline?), curiosi outfit barocchi, una vita da Bologna a Miami - andata cui segue inesorabilmente il ritorno - Gianluca Vacchi è più di un mito postmoderno, è più di un guru, è più di un influencer glocal, da Castenaso con vista sui colli bolognesi al resto del World Wide Web. Vacchi è un meme. Di se stesso.

Convinto che la vita sia una partita di padel - piacevole, poco stancante, inutilmente costoso, non un vero sport ma neppure un semplice gioco, una tendenza semmai - Gianluca Vacchi per convincerci e convincersi che si sta sempre divertendo ha scritto un libro, Enjoy («'sta mazza»: chiedi a Mondadori la percentuale delle rese...), inciso un disco, ha postato decine di milionate di balletti, e si è prestato a interpretare un auto-documentario, titolo: Mucho Más. «Una produzione che approfondisce la vita di Gianluca Vacchi e che svela il lato non ancora conosciuto dai tanti fan». Come direbbe l'interessato «'sto Enjoy!».

Che poi: come ha fatto notare qualcuno, la cosa più triste è che Vacchi, dopo tutta quella fatica di esercizi e flessioni, ghiaccio in faccia al mattino e camere iperbariche, sembra comunque il papà di Fabrizio Corona.

Mito dell'eterna giovinezza, 23 ore e tre quarti di inferno per un quarto d'ora di popolarità, dandismo retorico, pensiero positivo - ma è meglio non pensarci - una carriera da campione del mondo di sci buttata via (si dice che fosse più forte di Kristian Ghedina e Alberto Tomba), una storia banale fatta di stories geniali (e di highlights, video, foto, foto profilo...), e l'idea che si possa comprimere tutto fama, ricchezza, sentimenti dentro il rettangolo di un iPhone 2340×1080 pixel, 476 ppi.

Come gli ha insegnato Mirko Scarcella, celebre social media manager di molti vip, uno che viene da Sixth Saint John - Sesto San Giovanni - si deve ribaltare la filosofia di Søren Kierkegaard: bisogna vivere

esteticamente anziché eticamente. E se è vero che al lusso ci si abitua subito, ancora di più all'inutile. Che forse è il motivo per cui Vacchi, alla fine, ci fa tenerezza. Enjoy! Che in bolognese si dice: «Bona lè: basta».

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