Da trent'anni il fiammingo Moshe Leiser e il parigino Patrice Caurier formano una coppia fissa della regia. A loro è stato affidato il prestigioso incarico di realizzare la messa in scena di Giovanna d'Arco di Giuseppe Verdi per l'apertura della Scala. Il duo registico ha trovato il libretto di Temistocle Solera «problematico»: «L'assenza del rogo è una cosa ben strana. È come se qualcuno scrivesse un'opera su Winston Churchill senza la Seconda Guerra Mondiale...». Tralasciando la battuta, ricordiamo che Giovanna nella versione melodrammatica muore come una semplice fanciulla, sentendo le «voci di dentro» dei Demoni che si tormentano per non averla trascinata alla perdizione; e dunque l'assenza del rogo può ben essere un'esigenza dovuta alla vigile censura ecclesiastica. Leiser & Caurier trovano che il lavoro «del nostro povero amico Solera, (chissà perché «povero», forse conoscevano le traversie economiche del già poeta di Va' pensiero?) sia per mancanza di talento (giudizio personale sul co-autore di Nabucco e I Lombardi) sia perché dovette ridurre enormemente il testo affinché l'opera rientrasse nella lunghezza solita all'epoca (ma cos'è l'opera un vol-au-vent alla finanziera?), ha semplificato e tagliato così tanto che, onestamente, a una prima lettura non ho capito (chi dei due non ha capito?) il problema del padre, perché il padre tradisse la figlia per gli inglesi, su che cosa si basasse il rapporto amoroso tra Giovanna e Carlo, perché nulla lo spiegava, non c'era alcun sviluppo, è tutto esposto in modo ellittico». Anacronismi drammaturgici più che «ellissi» che nell'economia del melodramma possono essere chiariti se presi nello spirito e non alla lettera. Ancor più oscuri saranno sembrati ai dioscuri della regia che ci occupa le tipiche irruzioni del soprannaturale che Verdi prediligeva. Giovanna, infatti, viene spinta all'azione contro l'invasore dalle «voci» angeliche, mente i cori canaille dei demoni cercano di farla cedere alle lusinghiere profferte amorose del Delfino-poi-Re, Carlo VII di Valois... Il contrasto tragico di Giovanna che «si rende conto che non può avere, al tempo stesso, l'uomo che desidera e la gloria alla quale aspira (...) è proprio il fulcro dell'opera di Verdi e di Solera, non è la nostra visione registica». Ci spiace per loro.
«Quello che abbiamo cercato di fare è stato inventare uno scenario che ci permettesse di rendere le debolezze dell'opera una forza: (...) immaginare che «ciò che in essa appare incoerente e troppo ellittico non ha importanza, dal momento che siamo all'interno di una nevrosi, e la nevrosi non può essere logica; anzi, la realtà nevrotica è proprio nel suo essere ellittica». Così stando le cose per i due, l'azione trasloca dal medioevo «trovadorico» «in un Ottocento relativamente semplice, si vede una camera con un letto... Ci sono comunque anche delle armature, perché il suo delirio è medievale, è la voglia di essere Giovanna d'Arco. L'epoca è quella in cui il dott. Jean-Martin Charcot, un neurologo francese, inizia i suoi studi sull'isteria all'ospedale della Salpetrière a Parigi; sono rimasto colpito dalle foto delle pazienti di Charcot, sono immagini di donne isteriche, con problemi mentali, ed è impressionante fino a che punto rappresentino i diversi stati d'animo di Giovanna d'Arco. C'è una foto in cui la donna ritratta è proprio in uno stato di estasi, di incontro con Dio».
Altro nodo importante per i registi è vedere «come sia appunto la frustrazione sessuale che spinge a combattere lotte soprannaturali in nome di Dio». La Vergine appare a Giovanna per rammentarle la sua missione; il padre Giacomo dubita della sua integrità: Giovanna non può mettere insieme le grandi ambizioni di salvare la Francia e di combattere per Dio e la possibilità di avere una semplice felicità terrena con un altro essere umano. (...
) È una questione di vasi comunicanti: meno sesso c'è, più si ha bisogno di Dio; e, in un certo modo, quanto più Dio c'è, meno sesso c'è».Le pensate sono troppe: rimane sempre da vedere la realtà esecutiva nel suo complesso. Siamo fiduciosi, altrimenti invece di un «povero» librettista avremo due poveri registi.
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