La guerra del soldato Jünger? Fu una questione privata

Le lettere dal fronte alla famiglia svelano come il giovane Ernst non combattesse per la patria ma per migliorarsi

La guerra del soldato Jünger? Fu una questione privata

L'anno prima che scoppiasse la Grande guerra, Ernst Jünger (1895-1998), studente mediocre e ribelle, aveva deciso di evadere dalle quattro mura scolastiche e arruolarsi nella Legione straniera. L'idea di vivere arbitrariamente era stata la molla della fuga, l'ignoto il luogo che la rendeva tale, l'Africa ciò che la incarnava. Attraversato in treno il confine con la Francia, da Verdun, dove c'era l'ufficio di reclutamento, era stato trasferito a Marsiglia e da lì imbarcato per l'Algeria. Tempo un paio di settimane, la routine del legionario gli era sembrata altrettanto insopportabile di quella dello studente e una nuova fuga ne aveva preso il posto, l'interno del Marocco come destinazione. Era durata poco, rimpiazzata dalle quattro mura di una cella della prigione militare di Bel Abbès: grazie all'intervento paterno, il foglio di congedo lo aveva infine rispedito in Europa.

L'avventura era durata in totale un mese e mezzo e tornando a casa il diciottenne Ernst si era sentito «sereno come dopo un salasso. La puntata nelle sfere in cui non esistono leggi è ricca di insegnamenti, come la prima esperienza amorosa e il primo combattimento; il comun denominatore di questi contatti precoci sta nella sconfitta, che risveglia nuove e più vigorose energie. Nasciamo un po' troppo selvaggi e curiamo le inquietudini febbrili con pozioni di natura amara. Tuttavia, per molto tempo mi sentii ferito nella mia libertà e m'infastidiva toccare quell'escursione, come una piaga che tardi a cicatrizzarsi».

Il «medico curante» di quella ferita era stato il padre di Ernst, Ernst Georg Jünger, vero e proprio deus ex machina dell'intera vicenda, nonché di ciò che sarebbe avvenuto in seguito. Benestante, colto, superbamente razionale, Ernst Georg aveva capito fin da subito che per aver ragione di quel figlio inquieto bisognava lasciargli le briglie lunghe sul collo, lasciarlo sbagliare, non lasciarlo cadere. Nei primi giorni della sua vita legionaria, al ragazzo era stata recapitata una lettera paterna, contenente denaro e «paragonabile alle argomentazioni di un giocatore di scacchi che analizzi una mossa inattesa». Non c'erano rimproveri, di là dall'annuncio di aver presentato un ricorso al ministero degli Esteri perché legalmente lo si potesse rimpatriare: «Pareva non dispiacergli che nel frattempo io cozzassi un poco con la testa contro il muro, poiché faceva parte dei suoi principi che, se qualcuno cominciava con il volere una cosa qualsiasi, questo era già degno di stima, nello stesso modo in cui si può manovrare un veliero solo se c'è vento nelle vele, poco importa da dove tiri. Espresse il desiderio di rivedermi sui banchi di scuola subito dopo le vacanze di Natale e, perché fino a quel momento non perdessi del tutto il mio tempo, aveva redatto un programmino, secondo il quale lì avrei dovuto parlar solo francese, imparare a sparare e marciare e infine, per ogni evenienza, farmi iscrivere nelle liste degli allievi caporali...».

In Ludi africani, resoconto di quel colpo di testa, Jünger racconterà che, pur essendo «riconoscente al vecchio», di quei «consigli giudiziosi» non aveva tenuto conto: «Ero dell'opinione che la partita cominciava solo adesso. Mi parve che fosse più che giunta l'ora di avviarsi verso le regioni disabitate, se non volevo tornare in modo poco glorioso». Per quanto stanco della «noia legionaria», non se la sente ancora di rinunciare all'avventura nell'ignoto... Purtroppo, o per fortuna per lui, come abbiamo visto fallisce anche in quest'altro tentativo e quando le porte del carcere militare gli si aprono davanti, con annesso ordine di congedo, c'è un'altra lettera paterna ad attenderlo: «In essa mi confermava esplicitamente di essere riuscito, non senza grandi spese e fatiche, a porre una buona fine alla mia avventura. La lettera era di tono abbastanza benevolo, affinché non avvertissi con troppa chiarezza l'umiliazione. Il vecchio scriveva che dopo questa sorprendente prova di indipendenza, riteneva meglio che io regolassi l'ultimo svolgimento dei miei studi a mio piacimento».

L'anno in cui scoppia la Prima guerra mondiale, vede dunque l'ex fuggiasco di nuovo sui banchi del liceo, ma padre e figlio sono ormai entrambi consapevoli che la strada borghese non è quella giusta e che la mortificante odissea in una serie differente di scuole e collegi non potrà avere uno sbocco, se non mediocre, nella normalità della vita civile. L'andare al fronte offre al giovane Ernst la possibilità di risparmiarsi un altro anno scolastico, in virtù della «maturità straordinaria» anticipata per chi si arruola volontario, e di chiudere quel capitolo fallimentare della sua giovinezza. Ma permette anche al padre di tirare un respiro di sollievo, perché sostituisce al «vivere arbitrariamente» del figlio, una disciplina autoimposta cui doversi assoggettare. Che sia rischiosa, è probabile, quanto e per quanto tempo però nessuno è in grado di dirlo e in fondo la guerra è vista ancora come una magnifica avventura...

Ciò che interessa in queste Lettere dal fronte alla famiglia 1915-1918 (LEG edizioni, pagg. 158, euro 18; a cura di Heimo Schwilk, traduzione di Francesca Sassi) è proprio l'idea della guerra come una questione privata, una sorta di impresa personale nella quale il giovane Ernst vuole dimostrare al padre che la fiducia fino ad allora dimostratagli, non è stata sprecata. Non ci sono giustificazioni di carattere patriottico o religioso, non si combatte per la patria, per la poesia, l'arte e la filosofa, in una parola la Kultur, della Germania: Jünger combatte per se stesso, per la sua affermazione e il suo miglioramento e il disprezzo per la vita e il gusto del pericolo sono le molle del suo agire.

Sull'altro versante, quello paterno, ciò che emerge è l'affettuosa quanto chirurgica attenzione con cui si guida la trasformazione del figlio in eroe di guerra: il padre lo spinge a frequentare il corso per «aspiranti ufficiali», in seguito lo incoraggerà nel rielaborare i diari di guerra in un libro, lo dissuade dal lasciare la fanteria per l'aviazione con motivazioni tanto spregiudicate quanto lucide: «In primo luogo è molto più rischioso: in aviazione quasi ogni disgrazia risulta fatale, poiché in aria non ci sono traverse. Inoltre ho sentito, e anche letto, che in guerra non si deve correggere troppo il proprio destino, altrimenti di solito si finisce male. E poi soprattutto non c'è più alcun vantaggio da ottenere nel diventare avieri. Si possono abbattere 20 persone senza neanche ricevere l'ordine di Hohenzollern, che nella posizione in cui ti trovi ora invece non può sfuggirti. In questo momento la cosa è diventata troppo comune, e la panna si è sgonfiata».

Jünger insomma combatte fin da subito con quella logica che solo più tardi teorizzerà: «L'Anarca esplica le proprie guerre anche quando marcia allineato nei ranghi con gli altri». Ha fatto sua la massima che «la liberà si mostra sempre bendisposta nei nostri confronti finché accettiamo che la morte sia il terzo della compagnia» e assapora il piacere sottile di essere a un tempo cacciatore e preda, di percepire l'istante dell'ebbrezza, di celebrare i rituali della conquista: «Vicino al corpo abbiamo trovato una borraccia piatta piena di whisky scozzese. In piedi al buio accanto a lui abbiamo offerto la nostra libagione al morto che ci aveva versato da bere. Prossimamente farò portare a casa i miei nuovi trofei. Ora possiedo una splendida carabina inglese, perfetta da usare in futuro per la caccia, un cinturone pieno di cartucce, l'elmetto d'acciai bucherellato di un tenente inglese, la sua mazza schizzata d sangue e il suo portasigarette».

Come scrive nella sua introduzione Heimo Scwilk, in queste «confessioni spontanee, sincere e spietate, senza alcuna ambizione letteraria» è difficile cogliere il ritratto di una generazione, «quella del fronte» che partì con troppi ideali e tornò disillusa sin alla disperazione.

Jünger fa banda a parte e nelle lettere già «si intravvede l'inizio di una stilizzazione di sé» in seguito «condotta con incredibile impeto e scaltrezza per una vita intera». Senza enfasi, né patetismo, esse raccontano come il giovane Jünger combattendo trovi se stesso.

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