Le protagoniste del romanzo di Sasha Marianna Salzmann, Nell'uomo tutto deve essere bello (Marsilio, pagg. 336, euro 19) attraversano mezzo secolo di storia, dagli anni Settanta a oggi, dall'Unione Sovietica alla guerra nel Donbass, passando per l'Ucraina e la Germania. Al crollo dell'Urss, le città in cui Lena (che studia per diventare medico) e Tatjana (che lavora in un bar) vivono, diventano ucraine e, nel giro di poco tempo, entrambe decidono di emigrare. Si conoscono a Jena, dove crescono le loro figlie, Edi e Nina, alle quali quel passato sovietico, così presente nelle esistenze delle loro madri, dice ben poco. È il compleanno di Lena a portare i nodi verso il pettine... Molti sono i richiami alla vita dell'autrice, che è nata a Volgograd nel 1985, allora in Unione Sovietica, e nel '92 è fuggita in Germania con la famiglia. Il suo primo romanzo, Fuori di sé (Marsilio, 2019), è stato finalista al Deutscher Buchpreis e allo Strega europeo; Nell'uomo tutto deve essere bello è uscito in Germania poco prima dell'invasione russa dell'Ucraina. Sasha Marianna Salzmann ne parlerà domani, 16 settembre, a Pordenonelegge (ore 19).
Come è nata la storia?
«All'inizio ero solo ispirata dalle donne, amiche di mia mamma, che si ritrovavano insieme, chiacchieravano, si raccontavano storie: erano meravigliose. E io le ascoltavo. Loro sapevano così tanto del Paese da cui tutte noi venivamo, e che non esiste più... Così ho iniziato a fare domande».
Come è andata?
«Mi sono seduta al tavolo con tante donne, dall'ex Unione Sovietica e dall'Ucraina, e ho ascoltato le storie delle loro vite. Nessuna voleva parlare di Ucraina o di politica: tutte volevano raccontarmi di quando andavano a scuola, o al mare, o hanno cresciuto i loro figli... Non mi sono ispirata a una singola donna reale. La mia domanda è: Mostrami da dove vieni. E la risposta, per me, è sempre la madre».
Il romanzo è diventato attualissimo.
«Quando è stato pubblicato, in Germania, mi consigliavano di non accennare troppo all'Ucraina. Mi dicevano: nessuno conosce le città, i nomi non si riescono a pronunciare... Era sei mesi prima che la guerra si estendesse verso Occidente».
Come si possono fare i conti col passato sovietico?
«Io personalmente ricordo poco, ma volevo davvero sapere, e capire, quello che era successo. Ho fatto ricerche in ogni campo. Nel romanzo le due figlie, Edi e Nina, cercano di immaginare come fosse la vita delle madri in Urss: quella sono io. Il problema, col passato sovietico, è che i fatti sono vaghi, sfocati. Ciascuno ti racconta una gamma di emozioni molto diverse e tu ti chiedi: quale è possibile?»
Si può rispondere?
«La risposta è che tutto è possibile, ma non sai che cosa sia vero. Grazie a queste ricerche ho potuto descrivere vite molto diverse una dall'altra in un passato dove, in teoria, c'era una sola via, una sola narrazione, quella sovietica appunto. Invece ciascuno racconta la sua storia. Quello che scopri è che i libri di storia mentono».
Che cosa l'ha colpita in questi racconti?
«Le persone con cui ho parlato ormai vivono tutte in Occidente. E nessuna di loro si è mai considerata una vittima di quel periodo, nessuna si è mai lamentata di una situazione che era orribile. Quello che raccontavano per me era un incubo, ma per loro no, era normale: perché avevano deciso di vivere. Nessuna di loro mi ha mai detto: guarda che cosa ci ha fatto il regime sovietico. Era la loro vita».
Quali sono le sue origini?
«Mio padre era di Mosca e non so nulla di lui. Mia madre è ebrea e la sua famiglia è di Odessa e Cernivci, anche se le cose sono più complicate di così: lei non avrebbe mai detto sono ucraina, bensì veniamo da città ebree... A Odessa si parlava yiddish ovunque, i miei nonni, che si conobbero e sposarono lì, fra loro parlavano yiddish, e io non lo parlo, ma lo capisco. A casa mia, nessuno parlava di Ucraina e nessuno parlava ucraino: l'Urss non era uno stato nazionale, a contare era l'unione. Oggi la nazionalità è percepita in modo molto diverso».
Perché scappò con la famiglia materna in Germania?
«Per l'antisemitismo, al crollo dell'Urss. Avevo dieci anni».
Scrive che il crollo dell'Urss è stato un terremoto, che perdura ancora.
«Sì, è ancora in atto. Le persone sono state talmente scosse... Io osservo queste donne intorno a mia madre, questa comunità, e cerco di capire quel passato, perché parlano nel modo in cui parlano, perché stanno sempre insieme, così unite: e penso che il loro sia stato un dramma dell'orrore, di cui noi, in Occidente, possiamo intravedere solo qualche scorcio».
Che tipo di orrore?
«Hanno perso il lavoro, non riuscivano più a pagare l'affitto o a comprare il pane, hanno fatto la fame. Per dar da mangiare ai figli e sopravvivere, queste donne hanno affrontato cose terribili. Mia madre era un dottore e ha dovuto scendere a compromessi che mai avrebbe accettato. È stato un incubo, che poi è finito nascosto nel cassetto dei ricordi: talmente sepolto che nemmeno loro sanno che ci sia. Ma queste donne, che io vedo camminare per strada, e sembrano uguali alle altre, in realtà portano dentro di sé, nel loro profondo, questo dramma: e come lo spieghi a dei ragazzi, che di quell'epoca sanno nulla?».
Si può?
«È la domanda centrale del libro: come figli, quanto vogliamo sapere, e quanto siamo in grado di sopportare? In alcuni momenti stavo impazzendo, perché quello che scoprivo era troppo orribile».
Perciò è così difficile la comunicazione fra genitori e figli?
«È facile giudicare chi non comunica. Ma è anche questione di porre certe domande; e, quando lo fai, non vedi più tua madre, vedi un essere umano... Vuoi? Non è facile».
Qual è il rapporto fra vita e memoria?
«Credo che i ricordi siano qualcosa di cui diffidare. Anche se, nel caso delle donne con cui ho parlato, i ricordi sono più interessanti della storia ufficiale: la storia sui libri è scritta dal punto di vista dei vincitori, degli eroi, mentre la vita umana è una storia di fallimenti, di bugie, di ciò che non finisce nei notiziari, ed è tutta seppellita nella nostra memoria. La vita è memoria, ma della memoria bisogna diffidare».
Il titolo è una citazione di Cechov.
«La usava mia nonna, e già mia madre si lamentava: nessuno può essere perfetto. Cechov visse prima della rivoluzione; ma quella frase, che può significare molte cose, suona molto costrittiva, se detta a una persona che vive nella dittatura dello stato sovietico...».
Anche il silenzio conta, in una dittatura?
«Il silenzio sono parole. Parlare era pericoloso, anche in famiglia, perciò il discorso veniva costruito in modo astratto: si parlava per citazioni, per modi di dire... Ecco il titolo.
Ed ecco, anche, le amiche di mia madre, queste donne meravigliose sedute intorno al tavolo che ancora chiacchierano e parlano così, fra loro: può sembrare qualcosa di frivolo, e invece è una eco del loro passato, delle loro conoscenze. È qualcosa che ti stanno raccontando».
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