Nonostante i truci avvertimenti del concept in cui si dichiara, nel più scontato politicamente corretto, il deliberato ridimensionamento del maschile, soprattutto del maschio bianco «uomo della ragione», a favore di «artiste donne e soggetti non binari», o ancora meglio a favore di esseri permeabili, ibridi e molteplici e altre amenità del genere, tutto sommato, quella che propone la direttrice della Biennale, Cecilia Alemani, è una mostra storica o che ne ha il vago sentore. A riprova, su 201 artisti invitati 192 sono donne, 83 morte, 36 delle quali nate nell'Ottocento, 8 addirittura prima del 1880 (Georgiana Houghton nel lontano aprile 1814, il mese dell'abdicazione di Napoleone), 59 prima del 1942, dunque se ancora viventi sopra gli 80 anni. A ulteriore dimostrazione, anche tra le 25 italiane (il 26esimo è uomo) sono state preferite le decedute (Milly Canavero, Linda Gazzera, Laura Grisi, Giovanna Sandri, Tecla Tofano) e le già ampiamente storicizzate: Marina Apollonio (1940) celebrata nel 2013 al Gran Palais di Parigi tra le grandi interpreti del movimento dinamico, Benedetta Cappa (1897-1977) omaggiata dal Guggenheim di New York nel 2014, Carol Rama (1918-2015) Leone d'oro alla carriera nel 2003, Carla Accardi (1924-2014) in mostra al museo del Novecento di Milano nel 2020, Nanda Vigo (1936-2020), presentata a Palazzo Reale a Milano nel 2019, Grazia Varisco (1937) dal prossimo 15 giugno in una personale sempre a Palazzo Reale; e neppure sono sconosciute Dadamaino (1930-2004), né Giannina Censi (1913-1995), riportate in luce a livello internazionale nel 2021 nella grande mostra sull'astrazione femminile al Centre Pompidou, curata da Christine Macel, a cui la Alemani paga 15 artiste, a partire dalla Hougthon, medium e spiritista, già in quella esposizione presentata al grande pubblico come il primo astrattista della storia.
Questa storicizzazione, quasi inedita per la più importante manifestazione del mondo di arte contemporanea, sembrerebbe un escamotage per puntellare i lavori delle restanti, più giovani a cui viene affidato il compito di immaginare «una condizione postumana, mettendo in discussione la visione moderna e occidentale dell'essere umano». Tra Padiglione Centrale e Arsenale, lo scenario potrebbe essere apocalittico ma non lo è: a fianco di cinque piccole mostre storiche (sul Surrealismo, l'arte Programmata, la Poesia Visiva, la fantascienza e i cyborg), concepite come delle capsule del tempo, che vanno a costituire una sorta di matrice su cui poi variare i temi di fondo, si inserisce la parte più contemporanee che è di uguale compostezza, se si esclude quale stravagante istallazione e qualche video fuori tempo: una sequela di opere che riflettono «sulle nuove combinazioni di organico e artificiale», «nuove simbiosi tra animali ed esseri umani», nel video di Zheng Bo i personaggi «vivono in una comunione totale, anche sessuale, con la natura», e poi ovviamente robot, esseri post gender, creature ibride, le sculture di Jes Fan prodotte con materiali organici tipo melanina e latte materno per creare nuove culture batteriologiche, poi quelle biomorfe di Marguerite Humeau, i monumentali esoscheletri di Teresa Solar. Ma a parte ciò, si vede tanta pittura e di buona qualità, soprattutto astrazione, con qualche concessione a una figurazione di matrice internazionale, e molto surrealismo, come se di tutti i filoni delle avanguardie novecentesche, questo sia il più prolifico almeno per il lato femminile dell'arte: tra le tante donne spicca la cilena Cecilia Vicuna, ma anche i piccoli lavori di Chiara Enzo, la figurazione quasi metafisica dell'afroamericana Noah Davis, la pittura più robusta e fisica dell'americana Amy Sillman, un'astrazione che viene definita «burrascosa», più colorata quella di Jadé Fadojutimi, più grottesca la figurazione di Paula Rego. Di impatto poi i lavori della tedesca Rosemarie Trockel che espone alcuni quadri a maglia; altrettanto lo sono i giganteschi dipinti mistici di Portia Zvavahera, sincretici tra spiritismo indigeno dello Zimbabwe e dottrina pentecostale; più simbolici quelli di Pinaree Sanpitak che richiamano strutture sacre buddhiste; infine il più fotografato, un enorme arazzo, lungo 5 metri, dal titolo Epping in cui Igshaan Adams, cresciuto a Città del Capo, mischia legno dipinto, plastica, perle di pietra e vetro, conchiglie.
Una menzione a parte merita l'unico maschio della compagine italiana, Diego Marcon (classe 1985) che presenta un video di grande impatto poetico, The Parents' Room del 2021, che mimando la tecnica dello stop motion, ma con un complesso make up dei protagonisti, si addentra nel tema perturbante della furia che accompagna l'omicidio suicidio che distrugge una famiglia.
Alla fine, la Biennale della Alemani non è male anche se rappresenta alla perfezione il circo-circuito dell'art system occidentale alle prese con Covid e guerra, paura per il futuro, senso di colpa, il desiderio comunque di esportare la propria way of life, una sorta di tramontante nichilismo: più negli intenti che nella realizzazione, c'èuna genuflessione al
metoo, femminismo quanto basta, una gomitatina alle culture alternative, un po' di politichese e di artivismo, a metà tra Blade Runner e Squid Game, ma in modo sorprendente anche tante cose da vedere, alcune perfino belle.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.